NIENTE PANICO DA TECNOLOGIA: LAVOREREMO TUTTI MENO ORE
Nei prossimi anni, quando ognuno di noi disporrà di decine di schiavi meccanici, la nostra condizione somiglierà più a quella vissuta da un cittadino dell’antica Atene o a quella di un operaio della Detroit anni 30? Dipende solo da noi
S ono nato in un piccolo paese rurale del Mezzogiorno d’Italia quando non era ancora dotato di energia elettrica e di acqua corrente.
Ho ascoltato la prima radio quando avevo otto anni, ho visto la prima televisione quando ne avevo 16, sono andato a lavorare in una grande acciaieria quando ne avevo 23, e l’anno successivo ho visto per la prima volta un computer. Sono stato tra i primi italiani a comprare un fax, a usare un cellulare, a sottoscrivere un abbonamento a Internet. Ho dunque l’impagabile fortuna di avere vissuto in prima persona il passaggio della società da un millenario assetto rurale a un bicentenario assetto industriale e a un inedito avvento postindustriale. Ciò mi ha permesso di gustare come primizie o di paventare come minacce tutte le innumerevoli novità tecnologiche che hanno segnato questa transizione e, con esse, tutti i mutamenti antropologici e sociali, compresi l’ascesa e il declino della classe operaia e media, la crescita esponenziale della produzione e il fallimento della distribuzione, l’acuirsi della competitività e il rifiuto della solidarietà. Tutti i settori e tutte le funzioni ne sono stati modificati ma a me ha interessato studiare soprattutto il mondo del lavoro, che ho visto mutare sotto i miei occhi: da quello contadino del paese in cui sono nato, con i suoi miti e i suoi riti ancestrali, a quello della grande fabbrica con i suoi possenti altiforni, a quello dell’università con le sue ricerche e la sua internazionalità.
Mai il pianeta è stato capace di produrre tanta ricchezza; mai l’uomo lavoratore è stato così vicino all’affrancamento dalla schiavitù che deriva da una cattiva distribuzione del lavoro, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele; mai gli è stato così possibile delegare alle macchine quasi tutta la produzione che richiede fatica fisica, precisione e velocità. Eppure il progresso tecnologico, sempre più capace di liberare l’uomo dalla fatica e dallo stress, invece di essere valorizzato per queste sue potenzialità liberatorie, viene impiegato per accelerare i ritmi, incrudelire l’asservimento alla macchina e al profitto in misura tale che mai Taylor o Ford avrebbe osato. Negli anni Trenta del secolo scorso, quando ancora non esistevano l’informatica e l’intelligenza artificiale, i nuovi materiali e le stampanti 3D, Bertrand Russell lamentava: “Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo”. Invece, abbiamo continuato.
Se Taylor, all’inizio del XX secolo, sosteneva che occorre modernizzare simultaneamente le macchine, l’organizzazione e la testa degli uomini all’interno della fabbrica, noi all’inizio del XXI secolo siamo costretti dalle mutate condizioni a modificare radicalmente e simultaneamente il lavoro e la vita del lavoratore all’interno della città, per migliorare la qualità dell’uno e dell’altra. Ma, per intraprendere questo cambiamento totale, che è insieme scientifico e antropologico, occorre avere un’idea precisa di cosa ci aspetta, delle sfide che si prospettano e delle risorse di cui disporremo per vincerle. Nel corso della storia umana non sempre il lavoro inteso secondo l’accezione oggi corrente è stato al centro del sistema sociale. Nella Grecia di Pericle, ad esempio, era centrale l’attività politica; nella Roma di Augusto erano centrali l’attività amministrativa e quella militare; nell’Europa medievale era centrale l’attività religiosa; nella Firenze dei Medici erano centrali quella artistica e quella bancaria. Nell’Italia del 1947 i costituenti ritennero opportuno sottolineare che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, non sui privilegi.
Ma ora, passati settant’anni, il lavoro rappresenta solo un decimo della vita di un italiano e appare dunque problematico fondare lo Stato su appena un decimo della vita dei suoi cittadini. Per comprendere le possibili strade che potrà imboccare il lavoro nel prossimo futuro, per decidere verso quale di esse è preferibile indirizzarlo, e per creare le condizioni favorevoli a tale esito bisogna ripercorrere le mutazioni che il lavoro ha subito nel corso dei secoli e ricavarne le lezioni indispensabili per progettare il futuro.
Nei prossimi anni, quando ognuno di noi disporrà di decine di schiavi meccanici, la nostra condizione umana dovrà somigliare più a quella vissuta da un cittadino di Atene nel V secolo a.C. o a quella vissuta da un cittadino di Detroit nel XX secolo d.C.? Per organizzare il futuro del nostro lavoro quale di queste due esperienze è più ricca di suggerimenti?
L’uomo si è sempre sforzato per trovare gli strumenti capaci di ridurre i suoi sforzi. Di volta in volta egli ha identificato questi strumenti nelle sue stesse mani, negli animali, negli schiavi, negli utensili elementari, nelle macchine meccaniche, nelle macchine elettromeccaniche, nelle macchine digitali, nell’intelligenza artificiale. Insomma, la maggior parte della creatività, dell’energia, del lavoro impiegato dall’umanità nel corso della sua storia ha avuto come obiettivo principale l’invenzione e la produzione di strumenti capaci di assicurarle la massima quantità di prodotti e servizi con il minimo apporto di lavoro umano. Lo scopo profondo per cui si lavora è quello di non lavorare. Ma ogni volta che si supera una nuova tappa di questo cammino – la ruota, la carrucola, il mulino ad acqua, la stampa a caratteri mobili, la bardatura moderna dei cavalli, gli occhiali, il telaio meccanico, il vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, lo scientific ma
nagement, l’energia atomica, l’informatica – invece di profittare di questa vittoria per ridurre il lavoro a parità di prodotto, si preferisce produrre di più lavorando più di prima.
Ogni nuova vittoria sulla natura si traduce in una sconfitta della cultura perché si determinano ondate dolorosissime di disoccupazione tecnologica, chi si appropria delle nuove macchine e riesce ad assicurarsi dosi maggiori di ricchezza e le disuguaglianze socioeconomiche, anziché diminuire, aumentano. Lo scorso anno grazie alle nuove tecnologie e alla fatica di miliardi di lavoratori, il pianeta ha prodotto il 3,5% in più rispetto all’anno precedente, ma l’80% di questo immenso surplus è andato nelle sole mani di 1200 persone.
Nonostante questo mi pare di poter scorgere esiti tutt’altro che terrificanti, felici persino, del nostro avvenire. Ciò non significa che io neghi la drammaticità di fenomeni come la disoccupazione (che, anzi, considero una delle disgrazie maggiori del nostro tempo, tanto più ingiusta quanto più evitabile). Ciò significa che, ai miei occhi, le prospettive del progresso scientifico e della diffusione culturale legittimano un fondato ottimismo. So bene che dichiararsi ottimisti significa risultare poco affidabili scientificamente agli occhi di tutti coloro che reputano serie soltanto le diagnosi sconsolate, efficaci soltanto le terapie crudeli. Ma preferisco correre questo rischio piuttosto che tradire il risultato delle mie ricerche.