Viaggio nella Turchia sospesa tra il regime e la voglia di Europa
A Istanbul più rifugiati siriani che in tutta l’Ue
All’ingresso stampa del ponte sul Bosforo, uno dei teatri del tentato colpo di stato del 2016, e oggi, della sua commemorazione annuale, consegnano biscotti, patatine, acqua, e anche una barretta energetica: e siamo tutti pronti a fare notte. E invece Erdogan parla per meno di mezz’ora. E quasi a bassa voce. Ringrazia i 249 morti, i 249 martiri, promette che la Turchia non dimenticherà, che ogni colpevole sarà punito, ma quando la folla lo incita: Idam isteriz! Idam isteriz!, Vogliamo la forca!, dice solo: “Non dimenticheremo, ma nel rispetto della legge”. E passa oltre. Poi, tranquillo, ringrazia Dio, e dice: “E ora andate in pace”. “Tanto la legge può sempre cambiarla”, commenta un giornalista britannico. Ed è vero.
SOPRATTUTTO adesso che con le elezioni del 24 giugno, e un ultimo licenziamento di 18.632 dipendenti pubblici accusati di essere vicini ai golpisti, è entrata in vigore la riforma della costituzione che fa della Turchia un sistema presidenziale. Non esiste più il primo ministro, e il parlamento ha un ruolo più consultivo che legislativo. Sarà Erdogan a proporre il bilancio, e a nominare i ministri. E anche i funzionari di alto rango, e i governatori, e i giudici, e i rettori. E gli ambasciatori. Eppure, quello che inaugura dal palco non solo il suo nuovo mandato, ma quella che qui è stata già ribattezzata la Nuova Turchia, è un Erdogan strano. Diverso dal solito. Perché si sente finalmente sicuro, dicono i suoi consiglieri più stretti. E quindi ora, dicono, tutto può tornare alla normalità. O forse, perché ora il nemico è un altro, dicono invece gli oppositori. Ed è un nemico che non puoi arrestare: l’economia. In realtà, l’economia è da sempre la forza di Erdogan.
NEI SUOI VENT’ANNI al potere, si è registrata una crescita del 5 percento l’anno. E la classe media è raddoppiata, dal 20 al 40 percento. In uno dei rari casi al mondo di riduzione delle disuguaglianze. Apparentemente, tutto gira ancora a pieno ritmo: nel 2017, la crescita è stata del 7,4 percento. Ma a un’analisi più attenta, è ormai chiaro che in Turchia è finito un ciclo. Il ciclo delle grandi opere. Come il nuovo aeroporto di Istanbul, che aprirà in autunno, su u n’area che è quanto Manhattan, per 12 miliardi di dollari: tutti ancora da restituire. E sempre più difficili da restituire. Per ragioni legate solo in parte alla diffidenza degli investitori nei confronti di Erdogan, e dello stato di emergenza con cui dal 2016 ha cercato di districarsi tra attentati jihadisti, ribelli curdi, golpisti gulenisti, e oltre 3,5 milioni di profughi siriani. Centinaia di imprese sono state accusate di finanziare il terrorismo, e confiscate. Incluse molte imprese straniere. Ma il motivo di fondo della crisi è il rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve, che sta spostando tutti i capitali verso gli Stati Uniti. E sta creando problemi non solo alla Turchia. La cui lira in più, appunto, è già di suo ai minimi storici: solo da gennaio, ha perso il 20 percento del suo valore. E tutto questo rende i debiti ancora più onerosi. In un effetto domino micidiale. E la nomina a mi- nistro delle Finanze di Berat Albayrak, di mestiere imprenditore, ma soprattutto, genero di Erdogan, non ha particolarmente rassicurato i mercati.
NO NO STANT E la ritrovata intesa con Putin, basata su gas e petrolio, per diversificare, e sviluppare, la sua economia la Turchia avrebbe bi- sogno dell’Europa. A cui è diretto il 46 percento delle esportazioni, e da cui arriva il 76 percento degli investimenti. Ma in questi anni, in Turchia è cambiato tutto, tranne una cosa: il no dell’Europa. O meglio. Il silenzio dell’Europa. “La domanda di adesione è stata presentata nel 1987. E in 30 anni, solo uno dei 35 capitoli da discutere è stato chiuso. Quello su Scienza e ricerca”, spiega un diplomatico norvegese che preferisce restare anonimo. Perché poi aggiunge: “Ufficialmente, per noi il problema è Erdogan. Ma la verità è che le trattative non
Il nostro presidente ha riequilibrato gli eccessi laicisti di Atatürk Vietare l’hijab nei luoghi pubblici equivale a imporlo MUSTAFA AKYOL
Le cose possono avere diversi significati, adesso Erdogan controlla l’esercito oppure sono i civili a vigilare sui militari? EROL ÖNDEROGLU
sono mai iniziate. Perché la Turchia ha 80 milioni di abitanti: e tutti musulmani. Ed è questo il problema. Potremmo dire No. Espliciti. E invece rinviamo, rinviamo. E perdiamo tutta la nostra credibilità. Tutta la nostra capacità di influenza – dice – Ormai, non siamo più un modello per niente e nessuno. Il problema, tra la Turchia e l’Europa, non è Erdogan: è l’Europa”.
AL MOMENTO, i negoziati sono di nuovo sospesi. L’Europa contesta a Erdogan la reazione al tentato colpo di stato: 130mila dipendenti pub- blici licenziati, e 70mila cittadini in carcere, tra cui 150 giornalisti, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International. Associazioni chiuse, conti correnti congelati. Restrizioni a internet e all’informazione. Come promesso, appena rieletto Erdogan ha abolito lo stato di emergenza. “Ma perché tanto, adesso lo stato di emergenza è permanente”, commenta Ayhan Bilgen, portavoce dell’Hdp, il partito dei curdi che in questi anni aveva riunito intorno a sé la sinistra laica. E sull’onda delle proteste di Gezi Park, sembrava poter scompaginare tutto. “Erdogan non ha più bisogno di poteri speciali. Ora ha tutti i poteri”. Selahattin Demirtas, il segretario dell’Hdp, è tra i 70mila in carcere. “Ma per quanto ci riguarda, siete tutti uguali”, dice un attivista che è tra i 130mila licenziati, e ora fa il cameriere in un caffè di piazza Taksim. Era nell’avvocatura dello Stato. “Criticate tanto Erdogan. E contro l’Isis siamo stati i vostri eroi. Ma quando Erdogan ci ha attaccato ad Afrin, siete spariti. Ci avete usato e basta”.
NEI CORRIDOI di governo minimizzano. Il nuovo sistema presidenziale, ripetono, è semplicemente p r ac ti c al . Semplicemente un sistema per decisioni più rapide ed efficaci. E sarà solo il tempo a dire chi ha ragione: a dire se lo stato di emergenza è stato abolito davvero, o ha solo cambiato nome. “Ad ess o, per esempio, il capo delle forze armate è subordinato al ministro della Difesa. Ed è una rivoluzione, per un paese in cui l’esercito ha sempre avuto il ruolo di garante della Repubblica”, dice Erol Önderoglu, uno dei giornalisti più noti, più volte arrestato. “Ma può significare due cose opposte. Che Erdogan ora controlla anche l’esercito. O che ora i civili, finalmente, controllano i militari”, dice. “Niente, qui, è semplice come sembra”. Tranne l’analisi dell’Europa. Che in questa Turchia al bivio potrebbe essere decisiva, e invece non ha dubbi: Erdogan è il nuovo sultano. E prima cade, meglio è. Ma per Mustafa Akyol, uno dei più autorevoli esperti di Islam contemporaneo, non è questione di scontro tra laici e islamisti, qui. Ma piuttosto, appunto, tra civili e militari. O vecchie e nuove generazioni. “Perché per molti turchi, Erdogan è l’opposto di quello che è per gli europei: non ha ristretto, ma allargato la libertà”, ha scritto sul New York Times. “Ha riequilibrato gli eccessi di Atatürk. Attaccando non la laicità ma il laicismo. Il fondamentalismo laico. Per cui, per esempio, l’hijab nei luoghi pubblici era vietato. E vietare l’hijab è equivalente a imporlo: è comunque una forma di costrizione”. Erdogan, sostiene, è il paladino dei musulmani praticanti. A lungo cittadini di seconda classe. “Non gli risparmiano critiche. Ma non importa quanti limiti, quanto problemi abbia la sua Turchia: è una Turchia di cui per la prima volta si sentono parte”. Con Erdogan, dice, sono arrivati al potere non tanto gli islamisti, quanto i conservatori.
Come è evidente, in effetti, guardando il parlamento, in cui gli islamisti sono all’opposizione. O anche solo camminando per Istanbul. Questa Istanbul che è il simbolo di Erdogan, a lungo suo sindaco: e che è l’unica città del Medio Oriente in cui laici e islamisti vivono realmente insieme. E in cui girano senza paura persino gli israeliani. E non solo: perché la straordinaria crescita di Istanbul, tornata a essere metropoli globale, si deve a una politica della porta aperta. Trasferirsi in Turchia è molto sempli- ce: per chiunque. La Turchia è il paese con il più alto numero di rifugiati al mondo. Incluso il 63 percento di quelli siriani. Per cui l’Europa ha versato 6 miliardi di euro, è vero. Ma dal 2011, sono costati alla Turchia 26 miliardi di euro. La sola Istanbul ha più siriani dell’intera Unione europea. Nei giorni in cui la Aquarius di Medici senza frontiere vaga nel Mediterraneo in cerca di un porto, in uno dei centri per rifugiati un giornalista tunisino alza la mano. “Ho una domanda”, dice. Poi mi guarda. “Ma è per l’Italia”.