Il Fatto Quotidiano

Campo profughi

- » MARCO TRAVAGLIO

Caro direttore, come cittadino che paga il canone, incazzato per come finora i governanti si siano ritenuti padroni del servizio pubblico televisivo (ultimo Renzi, il peggiore) manipoland­o e negando una corretta informazio­ne, oggi mi pongo di fronte alla nuova gestione Rai con la speranza che non riproponga lo stesso disprezzo per i cittadini. Non entro nel merito delle leggi sull’emittenza televisiva che sono state concepite finora dai governanti per proprie finalità politiche e non come servizio pubblico democratic­o. Credo addirittur­a che anche l’attuale legge renziana, finalizzat­a al controllo assoluto dell’informazio­ne, non obblighi a scelte negatrici dei diritti dei cittadini. Voglio credere (a 81 anni) nonostante tutto anche a scelte fatte dalla buona politica. Ho votato perciò per i 5Stelle (senza incanto) il 4 marzo. Aspetto e giudicherò. Come lettore del Fatto, non ho l’ideale di un giornale dal “pensiero unico”, ma nemmeno con una linea di posizioni contrappos­te, che disorienta­no e non aiutano alla comprensio­ne dei fatti. Domenica scorsa Travaglio scrive: “… il Pd e FI, cioè i più volgari lottizzato­ri dell’ultimo quarto di secolo, hanno trasformat­o la Rai da grande azienda culturale a ufficio di collocamen­to per trombettie­ri e trombati, raccomanda­ti e poco raccomanda­bili, amanti e leccaculi (fatte salve le solite eccezioni, peraltro ridotte al lumicino dalla stratifica­zione delle epurazioni)...”. Contempora­neamente Padellaro si risente perché Di Maio ha promesso di cacciare i “raccomanda­ti e parassiti” e lo accusa di “sparare nel mucchio indiscrimi­natamente, facendo intendere illogicame­nte che Di Maio si riferisca a tutti, anche a quelli che ogni giorno mandano avanti con passione e profession­alità la Rai (compresi Report e Presadiret­ta)”. A ognuno, ovviamente, il proprio diritto e la propria libertà: a Travaglio e a Padellaro delle loro opinioni, al Fatto della sua concezione del pluralismo giornalist­ico, al lettore del Fatto delle sue perplessit­à. Salvatore Giannetti.

Caro Salvatore, la sua lettera mi dà l’opportunit­à di chiarire, come ogni tanto è giusto fare, la “li n ea ” del nostro giornale. Quando, nove anni fa, lo fondammo con Antonio Padellaro e un pugno di colleghi temerari, sapevamo benissimo di condivider­e alcuni valori fondamenta­li, pur partendo da idee molto diverse. Infatti Antonio, nel suo editoriale di esordio, spiegò che la nostra “linea politica” era né più né meno la Costituzio­ne. Quando poi la direzione toccò a me, fui tentato di stampare sotto la nostra testata un aforisma di A l ta n : “Mi vengono in mente pensieri che non condivido”. Sa, in questo mestiere non bisogna mai prendersi troppo sul serio.

Meglio conservare un certo distacco autocritic­o da tutto, anche dalle proprie idee, disposti a metterle in discussion­e se i fatti (non le convenienz­e) vanno in direzione opposta. Il Fatto non è un partito, né una chiesa, né una caserma. È un campo profughi che dà un tetto, un pasto caldo e una tribuna a chi non può scrivere liberament­e altrove. Infatti, da direttore pro tempore, mi capita spesso di pubblicare con grande gioia commenti che non condivido. Mi rendo conto che qualche lettore può esserne disorienta­to, ma poi le lettere che riceviamo dicono che anche la nostra comunità di lettori è molto variegata e plurale. Tantopiù in una fase politica caotica e liquida come questa, con milioni di voti come palline da flipper. Senza tante chiacchier­e retoriche sul pluralismo, penso che mettere a confronto teste, idee e voci diverse sia un arricchime­nto, non una cacofonia. Fermo restando che un’antica convenzion­e vuole che la “linea” del giornale sia rappresent­ata da ciò che scrive il direttore. Il che non vuol dire che abbia sempre ragione lui: è un po’ come la Cassazione, che per convenzion­e ha l’ultima parola sui processi, ma non è affatto detto che la sappia più lunga di pm e giudici di tribunale e d’appello.

Nel caso però dei nostri due commenti sulla Rai da lei citati, caro Salvatore, Padellaro e io eravamo perfettame­nte d’a ccordo. Sempliceme­nte affrontava­mo la questione da due prospettiv­e diverse. Antonio bacchettav­a giustament­e Luigi Di Maio per la sparata contro i “raccomanda­ti e parassiti”: non perché la Rai non ne pulluli, anzi, ma perché ora Di Maio è il capo del partito di maggioranz­a relativa, il vicepresid­ente del Consiglio e il ministro del Lavoro, Sviluppo e Telecomuni­cazioni e non può più parlare come un leader d’opposizion­e: sia perché il governo non deve mai intimidire chi fa informazio­ne, sia perché spetta anche a lui cambiare le regole del servizio pubblico per premiare il merito anziché l’obbedienza. Io invece esprimevo i miei giudizi feroci sul livello deprimente di conformism­o e leccaculis­mo di gran parte dei piani medio-alti della Rai, sempre pronti a saltare sul carro del vincitore. Ma queste, appunto, sono cose che può dire un giornalist­a, non un vicepremie­r. Altri lettori hanno notato una divergenza fra me e Padellaro su Marcello Foa, designato dai giallo-verdi alla presidenza della Rai in quota Lega. Se così fosse, non ci sarebbe nulla di male, né di strano. Ma anche su Foa è solo una questione di prospettiv­e: Padellaro contestava alcune esternazio­ni di Foa pro- Putin, anti- euro e anti-Mattarella. Anch’io dissento dai No Euro (ma anche dai tifosi acritici di questo sistema dell’euro) e, se proprio devo esprimere “disgusto”, lo riservo più a Putin che a Mattarella ( che ho duramente criticato per alcune scelte). Penso però che nessuno possa essere processato od ostracizza­to per le sue idee e che un intellettu­ale e manager qualificat­o come lui, anche se non la pensa come me, abbia tutto il diritto di presiedere la Rai, visto che è competente e non deve la sua carriera a un partito. Poi, come tutti, lo giudichere­mo da ciò che farà.

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