Il Fatto Quotidiano

PER ORA I GIALLO VERDI HANNO CAMBIATO POCO

- ▶ PETER GOMEZ

Nel programma del Movimento cinque stelle, presentato prima delle elezioni, si leggeva che la Rai avrebbe dovuto essere “indipenden­te dalla politica” e che si sarebbe dovuta ispirare alla“Bbc,d ove a capo c’ èunaf ondazio ne ”. Nel contratto di governo siglato tra i pentastell­ati e la Lega, l’idea della fondazione è scomparsa, e quella dell’ indipenden­za pure.

I seguaci di Beppe Grillo volevano cambiare tutto.

Quelli di Matteo Salvini non volevano cambiare niente. E così alla fine ha vinto il compromess­o, o meglio la promessa di un servizio pubblico senza “lottizzazi­one politica” dove dovrebbero prevalere la “meritocraz­ia” e la “valorizzaz­ione delle risorse profession­ali” interne all’azienda. Dal punto di vista pratico la governance della tv di Stato è rimasta quella pensata e voluta da Matteo Renzi. Che, dopo aver giurato “fuori i partiti dalla Rai”, aveva dato all’esecutivo il potere di nominare un amministra­tore delegato con prerogativ­e molto più ampie e pesanti rispetto al passato.

PER QUESTO OGGI riesce difficile appassiona­rsi per la battaglia che si scatenerà in commission­e di vigilanza intorno al nome di Marcello Foa, indicato da Cinque Stelle e Lega come presidente del Consiglio di amministra­zione. Su Foa ciascuno è libero di dare il giudizio che gli pare (e noi, dopo averci lavorato tanti anni fa assieme a il Giornale di Indro Montanelli, pur non condividen­do molte sue posizioni non ne pensiamo male). La verità però è una sola: il presidente in Rai non conta nulla o quasi. Così come non conta il fatto che la maggioranz­a gialloverd­e abbia messo per iscritto di volere una Rai non lottizzata e meritocrat­ica. Certo, aver scelto come amministra­tore delegato un uomo come Fabrizio Salini, con alle spalle una lunga esperienza a Fox, Sky, Discovery e La 7 e un presente a Stand By Me, la società di produzione televisiva della renziana Simona Ercolani, non è un brutto segnale. O quantomeno è un segnale diverso dal scegliere per quel ruolo un manager come Antonio Campo Dall’Orto, per molti anni ospite fisso della Leopolda. Ma a ben vedere, alla fine per i telespetta­tori dei Tg e per gli abbonati che ancora non possono essere in alcun modo rappresent­ati in azienda, cambierà poco. Persino se le promesse della maggioranz­a ( cosa difficile) venissero totalmente mantenute. Il perché lo ha spiegato Enrico Mentana: i telegiorna­li non possono essere indipenden­ti e liberi se hanno come editori partiti e movimenti. Per capirlo basta pensare alla commission­e di vigilanza. In qualunque democrazia degna di questo nome sono i giornalist­i a dover vigilare sull’attività del parlamento. Da noi invece la legge prevede l’esatto contrario. Col risultato di trasformar­e sempre la giusta richiesta di pluralismo contenuta nel contratto di servizio della Rai, in spazi da assegnare col cronometro alle diverse forze politiche. Detto in altre parole: se i media devono davvero essere un quarto potere, se i giornalist­i devono essere cani da guardia e non da riporto, è perfettame­nte inutile pensare che questo accadrà con la dovuta continuità in un Tg finché le loro carriere dipenderan­no dal potere esecutivo e legislativ­o, e non dal pubblico. Ovvio, scegliendo direttori migliori, ci risparmier­emo forse qualche passata vergogna. Le qualità personali e profession­ali nella vita contano. Ma può essere davvero migliore chi rinuncia a dire “voglio una Rai libera dai partiti” per scegliere invece di averli come datori di lavoro? Noi saremo romantici e utopisti, ma pensiamo di no. L’indipenden­za viene prima.

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