Il Fatto Quotidiano

“Dal 1968 all’ultimo concerto, voglio cambiare il mondo”

A TU PER TU Furio Colombo e Baez, l’amica delle battaglie contro le guerre “Il mondo si può cambiare”

- » FURIO COLOMBO

Qualcuno canterà di nuovo “We shall overcome” (“Noi ce la faremo”, il canto degli schiavi neri, che era diventato l’inno della lotta americana per i diritti civili negli anni 50 e 60)? Non so chi ha fatto la domanda per primo, se io a Joan Baez, che mi telefonava dalla Germania prima del suo prossimo concerto in Italia (l’ultimo, lei dice, il 6 agosto, a Roma, alle Terme di Caracalla) o lei a me. Strana vita la nostra.

Dico “la nostra” ripensando alle tante volte in cui ci siamo trovati vicini, fin da quando lei, diciannove­nne, cantava per Martin Luther King, per la liberazion­e dei neri americani, in testa ai cortei e di fronte a una polizia minacciosa, e io ero nel gruppo di Andrew Young e Jesse Jackson, che organizzav­a le marce guidate da King, ne scriveva, le filmava per le television­i del mondo.

FIN DA QUANDO Joan ha dedicato tutta se stessa all’impegno per la nonviolenz­a e contro la guerra nel Vietnam, e ha guidato masse di giovani e giovanissi­mi americani a dire no anche personalme­nte e fisicament­e alla guerra (bruciavano le cartoline-precetto di un servizio militare allora obbligator­io, rischiando prigione e futuro), e io raccontavo e filmavo quegli eventi per la Rai e TV 7. Fin da quando eravamo ad Hanoi negli stessi giorni e ci siamo trovati sotto i bombardame­nti americani perché si erano interrotte le trattative di pace a Parigi fra Kissinger e LeDuc Tho.

E adesso, mentre chiacchier­iamo al telefono, prima di rivederci a Roma, ci rendiamo conto che ognuno di noi ha il suo Trump, la sua cattiveria di Stato, il gesto di qualcuno che si fa quattro risate sulle speranze di un mondo senza guerre e sul progetto di rendere meno pericolosa, meno op- pressa la vita di tanti, quelli che invano tentano di fuggire. Il fatto strano, quasi una brutta fiaba, è che tutto ciò avvenga proprio in coda a una avventura che ci era sembrata bellissima.

“MA È STATA bellissima – lei dice – e poi la vita ricomincia da capo, col suo peggio e col suo meglio, è piena di gente che non noti, rispetto alla potente assemblea distruttiv­a che occupa il campo. Ma quella gente c’è, vive, respira e cambia il mondo (lo cambierà) solo per il fatto di esserci e di portarsi addosso un contagioso senso di contatto con gli altri, un rapporto di responsabi­lità con le altre vite”.

“Ti racconto una cosa – ha aggiunto –. Prima di questo giro finale in Europa ho deciso di fare una cosa che a prima vista è impossibil­e: un concerto a Istanbul. Quelli che mi volevano, a Istanbul, hanno ottenuto una piazza grande e io ho trovato quella piazza gremita di migliaia e migliaia di persone, moltissimi giovani (la grande sorpresa), moltissime donne. E ho sentito che tutta quella folla era lì per dare un senso allo stare insieme, per usare le mie canzoni come un legame comune. E allora ho potuto u- sare le parole – diventate canzone cantata in turco – del loro grande poeta Hikmet. La sua poesia si è unita a noi, amata da quella folla, creando una barriera fortissima contro ogni idea di vendetta e violenza. Vedi, c’era qualcosa che andava al di là della loro condizione del momento, qualcosa come un passaparol­a o una consegna, come una corda a cui tenersi forte in un momento di estrema turbolenza”. Poiché credo di conoscerla, so che non sta parlando di un fatto mistico o magico, ma di un tipo di cambiament­o che non avviene per scontro, ma lungo il misterioso percorso (che era caro a Martin Luther King fino alla pallottola sul ballatoio del piccolo Hotel Lorraine di Memphis, a

Marco Pannella nella confusa e avventuros­a vita italiana, nel ricordo comune di Gandhi) della nonviolenz­a, che scarta l’odio e lo ignora, nonostante i tanti e attivissim­i portatori di odio. Joan detta Joanie, nella sua casa di legno in cima alle colline di Palo Alto, insiste nella sua visione di “un piano di sopra”.

“NELLA PIAZZA di Istanbul vedevo che agli accadiment­i politici si sovrappone, come una pioggia invisibile, un altro strato di realtà. In apparenza ti copre, quasi ti nasconde, in realtà ti porta di là da quello che accade, dandoti un senso di libertà, persino se la libertà non è l’intenzione di chi manovra il potere. A Vienna, con quel che succede a Vienna, tra la folla del Wiener Konzerthau­s che ci ospitava, ho sentito la stessa scossa, gente che va per una strada fatta di incontro e di vita condivisa, ignorando le frontiere chiuse manovrate dai governi. Mi sono detta che noi non facciamo abbastanza per trovare questa strada nascosta che è la via di fuga e di salvezza, non solo fisica, di tanti”.

MA JOAN BAEZ ha pronta una seconda vita. Dipinge, a un livello già conosciuto e apprezzato e cercato, in America. C’è già stata una mostra e un catalogo nella sua California. Ne progettava una a Roma. Ma a Roma è agosto. Succederà un’altra volta.

E sarà una sorpresa. Come tutta la vita, la voce, il canto di Joan Baez da Selma, ad Hanoi, a Istanbul.

La speranza La vita è piena di gente che si porta addosso il senso del contatto

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