QUESTO STATO MERITAVA BORSELLINO?
Una confidenza e tre pensieri. La confidenza: confesso il mio turbamento. Ero scettico sulle basi giuridico- penali del processo sulla trattativa Stato-mafia. Pensavo che: a) in quella drammatica e cruenta congiuntura, ci potesse stare che, chi a vario titolo portava responsabilità istituzionali, si interrogasse su come porre fine alla strategia stragista di Cosa nostra e potesse anche sbagliare in buona fede ( difficile dubitare delle oneste intenzioni di una figura limpida come quella del Guardasigilli Giovanni Conso, che pure, mal consigliato, commise l’errore della revoca dei 41 bis); b) i servizi segreti, quasi per missione, agiscono su un terreno opaco e di confine tra legalità e illegalità, non vanno per il sottile e talvolta si spingono ai limiti e oltre il mandato dei politici. Ma sono troppo chiare e ben argomentate le motivazioni della sentenza e io sono costretto a confessare che mi sbagliavo. Di qui tre riflessioni.
La prima. La parole scolpite dai magistrati sono pietre. La loro portata storica, morale e politica, oltre che giuridica, è sconvolgente. Esse non ci consentono di archiviarle distrattamente. Ci costringono a rileggere con altri occhi quella cupa stagione della nostra storia repubblicana. Prescrivono di metterla in relazione con la storia più lunga degli oscuri legami tra criminalità, politica, istituzioni; con le complicità e le coperture di apparati dello Stato nei misteri della Repubblica. Confermano che la nostra democrazia è malata, difettando di trasparenza e legalità, che ne rappresentano un prerequisito. Suscitano sconcerto e incredulità al pensiero che ancora oggi occupino la scena pubblica e ruoli istituzionali soggetti politici che, direttamente o indirettamente, portano la responsabilità di quelle trame. Possiamo reiterare stanchi rituali celebrativi di Falcone e Borsellino e di altri servitori dello Stato dopo questa sentenza senza che nulla cambi?
Seconda riflessione. In queste ore, il mio pensiero è andato a mons. Cataldo Naro. Mi si chiederà: che c’entra? Storico, teologo, vescovo di Monreale succe- duto a un prelato chiacchierato, mons. Naro, prematuramente scomparso, nella sua Sicilia, fu promotore e animatore di convegni e di studi centrati sul tema del “martirio civile”. Sull’o nda d el l ’ assassinio del “giudice ragazzino” Rosario Livativo e delle veementi parole di Giovanni Paolo II all’indirizzo della mafia. Il senso di tale riflessione, cui parteciparono teologi e vescovi siciliani, può sembrare rarefatto ma non lo è: estendere a chi sacrifica la vita per la società e lo Stato il concetto di “martire”, tuttora canonicamente circoscritto a quanti danno la vita per la fede religiosa (chi versa il proprio sangue a causa e a difesa della fede). Non sfuggano le implicazioni teoriche e pratiche, specie per una Chiesa che, in passato, in Sicilia, aveva conosciuto rapporti opachi con ambienti mafiosi. Più in generale, un contributo a un prezioso arricchimento del concetto di santità e di martirio, comprensivo di chi dà la vita per la “città dell’uomo” e le sue istituzioni. Accreditando l’immagine di una Chiesa non autoreferenziale, non clericale, non ignava, ma che concepisce se stessa e la propria missione per la vita degli uomini e della comunità, lottando per la giustizia.
Infine, il terzo interr ogativo. Il più urticante e tuttavia ineludibile. Sul quale già riflettevo di recente a quarant’anni dal sacrificio di Moro. Ero convinto allora (e ancora non me la sento di cambiare opinione, ma non ne sono più così sicuro) che, nelle condizioni date, fosse difficile rinunciare alla linea della fermezza. Ma ciò che abbiamo appreso poi, da inchieste, processi e commissioni parlamentari, circa omissioni e inquinamenti negli apparati dello Stato, ci costringe a rimettere in discussione le certezze di un tempo. Molti, troppi ancora i buchi neri. Tanto più ora, dopo la sentenza Borsellino, sorge spontanea e ineludibile la domanda: non lo Stato nel suo statuto ideale, ma questo nostro concreto Stato, quale si rivela da indagini e atti giudiziari, meritava e merita il sacrificio della vita di uomini speciali, tanto migliori di noi?
RICORDO CHE Leopoldo Elia, consigliere giuridico di Moro a lui affezionatissimo e tuttavia allora schierato con intima sofferenza per la linea della fermezza, nel tempo finale della propria vita, con inquietudine, si poneva tale interrogativo. Concludere che no, non meritava sarebbe una tragica sconfitta, un torto arrecato ai nostri stessi martiri civili, decretando l’inutilità del loro sacrificio. Ma altrettanto e più ingiusto sarebbe non porsi e riproporsi, sempre e di nuovo, con serietà la domanda e fare tutta intera la nostra parte perché lo Stato, questo nostro Stato, se ne mostri degno. Cominciando dalla onesta, amara presa d’atto che oggi non è affatto scontato.