Il Fatto Quotidiano

ULTIMA MISSIONE IMPOSSIBIL­E: CAMBIARE LA RAI

- » MASSIMO FINI

Anche se ci mettessero tutto il loro migliore impegno e la più buona e onesta volontà, il tentativo dei 5stelle di riformare la Rai in senso meritocrat­ico e non partitocra­tico è una mission impossible. Parlo dei 5stelle perché sono nuovi, tutti gli altri hanno alle spalle una lunghissim­a pratica spartitori­a e la Rai è una stratifica­zione geologica, a tutti i livelli, di berlusconi­ani, di leghisti, di dem, di renziani e, prima di loro, di democristi­ani, di socialisti, di comunisti o pdessini che dir si voglia.

IL PRESIDENTE della Rai è nominato dal Consiglio di amministra­zione che è frutto di un accordo tra i partiti, come vediamo bene in questi giorni e abbiamo visto sempre da quando siamo entrati nell’età della ragione. E anche la nomina dell’Amministra­tore delegato, che formalment­e spetterebb­e al ministro dell’Economia, è frutto di un accordo fra i partiti sia attraverso i membri che siedono nel Consiglio di amministra­zione sia fuori da quelle stanze. La Commission­e di Vigilanza è formata da esponenti di partito che quindi dovrebbero vigilare su se stessi. Quis custodiet custodes? Se per caso capita in Rai un corpo estraneo, non legato a nessuno se non alla propria capacità e profession­alità, ne viene estromesso al più presto com’è stato il caso di Carlo Verdelli. Sfido chiunque a trovare in Rai un direttore di rete o di testata ma anche un redattore semplice e persino un bidello che non sia in qualche modo legato a un partito. Del resto anche decidere del merito è difficilis­simo. Ci sono in Rai ottimi giornalist­i che non smet- tono di esser tali perché sono legati a questo o a quel partito, a questa o a quell’area politica. Cosa facciamo, eliminiamo anche costoro? Eppoi qual è il criterio decisional­e? L’audience? Ci sono programmi di qualità che, spesso proprio per questo, hanno una bassa audience. Eliminiamo anche questi?

In realtà una soluzione ci sarebbe. Mantenere una sola rete pubblica sotto il controllo del governo – perché anche il governo, che ci rappresent­a tutti, ha il diritto e il dovere di fare lato sensu una sua politica soprattutt­o culturale – com’è il caso della Bbc inglese che pur è considerat­a una delle migliori, se non la migliore, del mondo. Le altre due Reti dovrebbero essere messe sul mercato e vendute a soggetti diversi. Ma questo comportere­bbe che anche Mediaset vendesse due delle sue tre Reti. È quello che un tempo si chiamava “disarmo bilaterale”. Ma anche questo è pura utopia.

In realtà la Rai è solo l’emblema, il più evidente e conosciuto perché la vediamo tutti da quando siamo nati, della situazione di un Paese divorato dalla partitocra­zia, cioè dall’occupazion­e a opera dei partiti di tutto il settore pubblico e spesso anche di parti di quello privato. Di questa stortura, di- ciamo pure di questo cancro, ci si era accorti, anche ad alto livello, già più di mezzo secolo fa. Nel 1960 il presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto come indipenden­te, fece un vibrante discorso, proprio in quella Camera, cioè nella sede più autorevole (Twitter non esisteva ancora e dubito che se mai fosse esistito uomini come Merzagora o Fanfani o Nenni o Saragat o Togliatti o Almirante lo avrebbero usato) contro il dilagare dei partiti che previsti in un solo articolo della nostra Costituzio­ne (art. 49: tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberament­e in partiti per concorrere con metodo democratic­o a determinar­e la politica nazionale) tendevano a mettere le mani anche sugli altri 138. Sempre nello stesso anno un grande giurista, Amedeo Giannini, che proprio di questioni costituzio­nali si era occupato e si occupava, diede lo stesso allarme. Associarsi a un partito è una libertà non un obbligo. Ma fu tutto inutile. I politici fecero orecchie da mercante. E così, passo dopo passo, siamo arrivati alla situazione attuale.

PER SCARDINARE­un simile sistema, questa mafia che non osa dirsi tale ma che tutti noi, qualsiasi sia il posto che occupiamo nella società, conosciamo sin troppo bene, ci vorrebbe un’autentica rivoluzion­e. Non credo proprio che il buon Di Maio, ma neanche il più focoso Alessandro Di Battista, che peraltro se ne è andato prudenteme­nte in Sud America, possano riuscire in questa impresa ciclopica.

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