Un’anatra zoppa alla guida della tv pubblica
“Credo che la politica debba fare un passo indietro rispetto a quella che è stata definita l’occupazione della Rai”.
(da un intervento di Sergio Zavoli ai Seminari della Commissione parlamentare di Vigilanza – Atti del Senato, 2010 – pag. 66)
Neppure ai tempi del regime televisivo berlusconiano avevamo assistito a una tale occupazione “manu militari” della Rai, come quella che sta mettendo in atto ora la maggioranza giallo- verde. Il servizio pubblico radiotelevisivo rischia di diventare così un feudo del governo e in particolare della Lega, un partito che alle ultime elezioni s’è presentato insieme a Forza Italia e ha raccolto da solo il 17,3%. Per quanto i sondaggi gli attribuiscano oggi una quota intorno al 30%, si tratta pur sempre di un consenso virtuale che dovrà essere verificato alle prossime politiche. E in ogni caso, la rottura della coalizione depotenzia e delegittima il risultato ottenuto dal Carroccio il 4 marzo scorso anche in forza di quella alleanza, ridimensionando il potere contrattuale di Matteo Salvini rispetto ai nuovi partner del Movimento 5 Stelle.
È un colpo di mano, un atto di arroganza politica e istituzionale, quello con cui lo schieramento giallo-verde pretende adesso di mantenere alla guida della Rai il candidato leghista, Marcello Foa, bocciato dalla Commissione parlamentare di Vigilanza a cui spetta per legge la nomina con la maggioranza qualificata dei due terzi. In primo luogo, perché quello è –per definizione – un ruolo di garanzia e come tale appunto dovrebbe essere attribuito all’opposizione: così fu, infatti, quando venne assegnato a Lucia Annunziata, Claudio Petruccioli o a Paolo Garimberti, durante il ventennio di Sua Emittenza. Se la legge consente a Foa di esercitare provvisoriamente questa funzione, in quanto consigliere d’amministrazione anziano, la dignità e la decenza dovrebbero impedirglielo: tanto più che lui è uno dei due membri indicati dal governo, mentre la presidenza è invece di nomina parlamentare.
IN SECONDO LUOGO, la figura professionale di Foa non corrisponde a quelle caratteristiche di imparzialità che sono richieste per garantire “super partes” il pluralismo dell’informazione e quello culturale del servizio pubblico, finanziato da tutti i cittadini attraverso il canone d’abbonamento. Si può dire, anzi, che il paladino leghista è legittimamente un uomo di parte, schierato apertamente sulle posizioni più oltranziste del Carroccio: no vax, no euro e ultrà di Putin. Né risulta che la sua candidatura sia stata preventivamente sottoposta al vaglio delle opposizioni o che queste siano state consultate per cercare un’intesa: non a caso al momento del voto sono uscite dall’aula della Vigilanza per evitare sorprese nello scrutinio segreto.
Non sappiamo ora se Silvio Berlusconi manterrà fino in fondo il suo dissenso. Il leader del partito-azienda è innanzitutto un uomo d’affari e potrebbe anche aprire una trattativa sulle direzioni delle reti e dei tg della Rai, per ottenere qualche poltrona o poltroncina e mantenere i suoi uomini all’interno del suo principale concorrente.
Quale che sia l’epilogo di questa vicenda, è chiaro comunque che Foa – ove mai restasse alla guida della Rai – sarebbe, come si suol dire, un’anatra zoppa. Un presidente dimezzato, privo di un riconoscimento e di un’investitura parlamentare. Il rappresentante di una tv nazional-populista; l’emblema di un servizio pubblico ridotto al rango di un’emittente “sovranista”; il testimonial di un autoritarismo di governo che rischia di compromettere definitivamente l’identità e l’immagine della più grande azienda culturale del Paese.