Mia moglie in crisi mistica va alla messa (in scena)
Mia moglie viveva il silenzio come una minaccia fisica, quasi che lasciare scivolare anche soli pochi istanti di vuoto sonoro si rivelasse fatale per la sua stessa sopravvivenza. Passava al telefono intere mezzore per baloccarsi con il riverbero della sua stessa voce. Ogni movimento domestico era sempre brusco e avventato, capace di produrre un fracasso degno di un cantiere. La tv restava sempre accesa, anche a tarda notte, e con un vo- lume ai limiti del tollerabile.
Ecco perché mi sorpresi quando – in quel luglio torrido che trasformò l’angolo di Brianza nel quale vivevamo in una colonia tropicale – cominciò a implorarmi di accompagnarla in chiesa. Sempre nel primo pomeriggio, in quella fascia sospesa del giorno in cui mentre un sole cocente batte sulla vita che si dipana, entrare nel silenzio della dimora di Cristo equivale a consegnarsi alla lenta estinzione di sé stessi. I movimenti scomposti dell’intimità domestica qui diventavano felpati. La sua mano si tuffava lievissima nel battistero. Si segnava sulla fronte e sulle spalle, genuflessa, con una grazia che non le conoscevo. Se il mio passo risuonava appena oltre la superficie di quel silenzio incontaminato mi rivolgeva uno sguardo di feroce disapprovazione. Con un cenno mi invitava a sedere e si infilava rapida in confessionale. Ne riemergeva dopo un tempo interminabile.
MI DOMANDAVO quale urgenza la spingesse a pronunciare litanie davanti a un prete sconosciuto, quale conforto presumesse di ricavarne. Io nel frattempo mi guardavo intorno, in un inarrestabile roteare del capo. Mi sentivo assediato dalle vetrofanie, i cui riverberi luminosi incombevano sulla navata dalle pareti laterali. I santi e gli angeli trapassati sul vetro dal tepore di un’estate irriducibile. Da qualche spiraglio di tanto in tanto giungeva l’eco di voci euforiche di bambini e quel fiotto di vita che entrava in quella quiete assoluta mi turbava nel profondo non perché violasse la sacralità del luogo ma perché mi ricordava il mio tributo di ipocrisia.
Ero lì solo per lei, per assecondare la sua volontà. Restavo seduto davanti al crocifisso appeso alle spalle dell’altare come fossi un turista annoiato in un museo sinistro. Tutto mi sembrava un reticolato di orrori. Non solo certi sguardi di angeli, volti innocenti sfigurati da sorrisi satanici. Ma anche il volto di quella madonna tanto mesta e addolorata da comunicare subito sentore di morte, circondata da un recinto di candele accese. E poi quelle om- bre nere, furtive, che pattinavano come fantasmi ai lati della navata. Preti allampanati che non si aprivano mai a un sorriso. Tutto era patibolare. Era questo il luogo che dicevano della speranza e della misericordia? A me pareva piuttosto il contrario.
Mia moglie sentiva il bisogno di consegnarsi ogni settimana a questi guardiani della tristezza che non potevano garantirle nulla in cambio se non parole smerciate come quelle degli imbonitori di piazza? Cosa cercava in quel raccoglimento in penombra, in quei gesti appena abbozzati, in quelle parole mormorate a filo di voce davanti a un uomo con la talare? Una medicina contro il dolore o una salvezza che nessuna preghiera poteva mai propiziare? Non capivo questa sua ostinazione nel frequentare un luogo di culto. Ne aveva sempre avuto un aristocratico disprezzo. Mentre io restavo sordo alle lusinghe dello spirito, lei ne pareva fagocitata.
MI ARRABBIAVO, spesso volavano parole grosse nelle discussioni a casa. “Cosa cerchi di ottenere, cosa speri di guadagnare?”, le gridavo. E lei, con gli occhi lucidi, con un gesto della mano a spezzare l’aria, mi ammoniva con uno sguardo muto di tacere, di non infierire, di non trasformare la fede in una nuova contesa coniugale. Non era mancanza di rispetto. Non era furia ottusa. La mia era proprio la volontà di sottrarla a una nuova illusione. Come i più deboli di carattere dinanzi al mistero del male, si rivolgeva agli amministratori di Dio per implorare una quiete dell’anima che aveva sempre visto come una mera invenzione umana. Vederla muoversi in chiesa, con quella compunzione da beghina, mi colpiva come un affronto.
Un giorno, uscendo dal confessionale, con il volto rigato di lacrime, si inginocchiò davanti all’altare con una postura affranta, pregando come se ne andasse della sua stessa vita. Il prete mi fis- sava dal confessionale aperto. Io mi guardavo intorno smarrito. A piccoli passi si avvicinò, mi prese delicatamente per un braccio, si sedette vicino a me sulla fila di sedie a metà navata. “So come la pensa” mi sussurrò. Io subito accennai un moto di stizza. Ora non volevo subire anche l’onta di una predica. Non l’avrei consentito. Il prete mi strinse il braccio con più vigore, quasi a costringermi ad ascoltarlo. Mi parlò mentre io guardavo fisso un punto in lontananza. “Sua moglie non è caduta in un delirio mistico, non si preoccupi. Finge di pregare. In realtà ripassa la sua parte. Nel confessionale lei recita le sue battute e io quelle degli altri personaggi”.
Dapprima pensai a uno scherzo. Non capivo questo prete burlone. Ma il tono era fermo, lo sguardo di vetro. “Ma di che diavolo sta blater an do ?” ringhiai a denti stretti. Lui riprese con calma glaciale. “Sia comprensivo. Sua moglie sarà Bianca nei Dialoghi delle carmelitane. Metteremo in scena Bernanos a fine agosto qui in parrocchia. So che lei è contrario. Ma lasci vivere a sua moglie questa passione del teatro. Guardi a cosa l’ha costretta. A una messinscena per poter recitare”.
Quinta puntata dedicata alle short story d’autore Mentre lei sente il bisogno di consegnarsi ai preti, guardiani della tristezza, io resto sordo alle lusinghe dello spirito. Mi arrabbio e spesso volano parole grosse Il sacerdote confessa ‘La sua consorte non sta delirando Finge di pregare, in realtà ripassa la parte: sarà la protagonista della nostra recita in parrocchia’