Dati medici digitali, la Lombardia sfida Ibm e li concede alla ricerca
Lo ha raccontato ieri sera il programma di Barbara Carfagna, Codice, che va in onda su Rai 1: i dati sanitari sono una ricchezza immensa, scientifica ed economica. Tanto che in Lombardia è stata deliberata l’autorizzazione a richiedere l’accesso a una enorme banca dati che contiene i numeri sulle prestazioni sanitarie e la salute dei cittadini lombardi a patto che ad utilizzarli siano enti di ricerca sanitari e che i dati siano resi completamente anonimi. Una scelta che arriva su sollecitazione degli enti universitari e che risponde allo scandalo di cui ha dato notizia Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano, del memorandum of understanding segreto tra Matteo Renzi e Ibm per cedere i dati sanitari a patto che l’azienda sviluppasse parte del progetto Watson nell’area dell’Exp o. Dati che valgono oro e di cui è difficilissimo avere libertà di gestione. Basti pensare che in Italia non è neanche possibile fotografare la propria cartella clinica.
CON UNA DELIBERA della settimana scorsa, la Regione Lombardia ha approvato l’ “Accesso ai dati del DataWareHouse regionale”: si tratta, in parole semplici di un archivio di dati digitalizzati che rac- coglie da un decennio le informazioni sanitarie - in particolare delle prestazioni - dei cittadini della Lombardia. Un progetto già deliberato parzialmente nel 2016, senza però che fossero indicate le finalità per cui si poteva chiedere accesso. Ora c’è la possibilità di concedere l’accesso all’archivio ai ricercatori delle università, dei centri di ricerca e degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), sia pubblici sia privati, a patto che abbiano sede in Lombardia e che siano supervisionati della Regione. Le finalità per cui possono essere richiesti vanno dalla valutazione dell’efficacia delle cure all’appropriatez zadellep re stazioni, passando per i fattori di rischio connessi agli stili di vita e la prevenzione delle malattie. Ma come vengono messi in sicurezza questi dati? La Regione assicura che saranno potenziate le misure per anonimizzarli, in modo tale che sia difficile risalire ai singoli anche incrociando altri database, e renderli disponibili solo in modo aggregato e per le finalità stabilite. “L’ente deve garantire che svolgerà direttamente le attività promosse e richieste dalla Regione senza commissionarle ad altri - si legge nella delibera -. Va utilizzato personale dotato delle conoscenze specifiche, in particolare nel settore della protezione dei dati personali. Università e Irccs per capacità e affidabilità devono fornire idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento dei dati”. L’iter sarà comunque lungo: si dovrà chiedere l’accreditamento alla Regione, ci sarà una commissione incaricata di verificare la bontà dei progetti e la creazione di un albo regionale con validità quinquennale. I progetti proposti devono avere già un’approvazione di altre istituzioni pubbliche come il ministero della Salute, l’Istituto superiore di Sanità e la Comunità europea.
La questione Ibm sembra invece essere su un binario morto. Dopo il memorandum del 2016, il Mise chiese alla Regione tramite Invitalia se era interessata a raggiungere un accordo di programma, che però era subordinato alla valutazione di due aut hor ity,antitr uste privacy, che non è mai arrivata. Il tema quindi non ha ancora coinvolto in alcun modo il neo governatore leghista, Attilio Fontana e potrebbe arenarsi in modo naturale.
ALLARGANDO lo sguardo al resto del mondo, c’è invece chi lotta per poter gestire autonomamente le informazioni sulla propria salute. Come Dana Lewis, una ragazza dell’Alabama che soffre di diabete di tipo 1: “Dovevo misurare la glicemia almeno 14 volte al giorno – spiega a Codice - e fare iniezioni di insulina”. I macchinari con cui monitorava i livelli non erano abbastanza po- tenti da riuscire a svegliarla se di notte aveva un improvviso calo. “Così ho pensato di collegare il computerino al telefono in modo che potesse attivare la suoneria”. Si è però accorta che non c’era modo di avere accesso a quei dati, nonostante riguardassero lei. “Ho trovato qualcuno che ci è riuscito, li ho riversati nel cloud e sono riuscita a impostare un allarme sullo smartphone”.
L’evoluzione è arrivata quando ha collegato a questo sistema anche l’iniezione automatica delle dosi di insulina necessarie per tenere i valori nella normalità. “Ho inserito il progetto in una comunità virtuale open source – ha spiegato – in cui ognuno ha dato il suo contributo per creare questo pancreas digitale, oggi usato da 700 persone nel mondo”. Ha poi creato una app su cui è possibile inserire i propri dati sanitari in modo anonimo, così come altri stanno sviluppando sistemi sulla blockchain (la tecnologia alla base dei Bitcoin) per permetterne la trasmissione blindata e sicura. Ma la strada è ancora lunga.
Consulto libero Intanto nel mondo c’è chi lotta per il diritto a gestire le sue informazioni in autonomia