Basquiat, inno alla gioia della (totale) ribellione
12 agosto 1988: moriva l’artista newyorkese
“Ri belle ”,“pittore primitivo ”, “carismatico”, “bellissimo”, “arrabbiato”, “indomabile”, “selvaggio”, “talentuoso”. È dalla viva voce dei suoi amici, di chi gli è stato accanto e gli è sopravvissuto, di chi lo ha amato e aiutato a farsi strada, che viene raccontato Jean-Michel Basquiat nel documentario che Sky Arte manda in onda domenica 12 agosto alle 21.15 in prima visione assoluta per ricordare i trent’anni della sua scomparsa, avvenuta il 12 agosto del 1988. Ma Basquiat: Un ribelle a New York (titolo originale Basquiat: Rage To Riches) – il documentario prodotto e diretto da David Shulman – non è una cena di commemorazione tra invitati attempati che si commuovono nel rimembrare la perduta giovinezza, non è il solito e già visto mosaico di tristi pezzi di memoria incollati dalle lacrime dei sopravvissuti che ci rammentano come la morte spezzi a caso vite speciali e immeritevoli.
SHULMAN, INFATTI, orchestra un inno alla gioia, o meglio un inno alla gioia della ribellione, e ciò perché i volti e le voci che si inanellano, le sorelle di Basquiat, Lisane e Jeanine, e poi i famosi galleristi delle sue opere Larry Gagosian, Mary Boone, Bruno Bischofberger, Annina Nosei e gli amici e colleghi Al Diaz, Jen Stein, James Chance, Stan Peskett e molti altri, concorrono tutti a restituire un passaggio umano e artistico tanto doloroso quanto folgorante ma felice nonostante tutto: il giovane prodigio sin da piccolo sapeva in cuor suo di non voler essere altro che un artista, e lo è diventato. Lo racconta la sorella Jeanine, che ricorda il grave incidente di cui fu vittima il fratello a soli sette anni quando venne investito da un’auto. Durante il mese di degenza in ospedale, la madre – che lo portava da bambino per i musei di New York – gli regala L’anatomia del Gray, il celebre manuale di anatomia illustrato del medico inglese Henry Gray. Ne rimane talmente colpito che lo smembramento del corpo sarà presente sin dalle sue prime manifestazioni artistiche, quando già a 14 anni, spiega l’amico Al Diaz, formano il gruppo SAMO, acronimo di “Same Old Shit”(la solita vecchia merda), e disegnano graffiti per tutto il Lower East Side di Manhattan con frasi poetiche ed enigmatiche, aforismi di protesta con riferimenti religiosi, filosofici e politici sui temi dell’integrazione e povertà.
E questi sono solo i primi punti di snodo dell’esistenza di Jean-Michel che il regista David Shulman vuole restituire tramite la testimonianza di chi era insieme a lui: Jen Stein sorride ancora nel narrare l’incontro con Andy Warhol al ristorante WPA, quando Jean-Michel lo riconobbe da fuori e si presentò al suo tavolo per vendergli la loro “analphabet art” – fogli scarabocchiati in cui si profilava già il tratto del genio – a dieci dollari al pezzo; anche Annina Nosei è divertita al rinverdire i mesi in cui si era trasferito nel seminterrato della sua galleria per vivere e dipingere non avendo altro posto, lei che per prima si accorse del suo talento. E ancora l’amicizia sincera con Warhol, che in un’intervista d’epoca confessa di lasciargli fare tutto quello che vuole; la mostra Warhol vs Basquiatorganizzata nel settembre 1985 da Tony Shafrazi e Bruno Bischofberger, un evento che registrò numeri da record, sui cui manifesti pubblicitari i due artisti sono come su un ring in completo da boxeur; il periodo felice vissuto alle Hawaii quando Jean-Michel voleva lasciare l’arte per sempre e riprendere a suonare.
Ma trovano spazio nel docu- racconto anche l’i so lamento da tutti negli ultimi anni dopo la morte di Andy, il senso di colpa per non essere rimasto accanto a lui, la droga sempre più insistente nei suoi giorni, la morte per overdose.
E ANCHE QUI, con coraggio narratologico, Shulman non cede e rifiuta la grottesca ma edificante favola del genio incompreso che si consuma di droga e pittura in una cantina: non vuole seguitare a mitizzare la già lontana figura di Basquiat artista maledetto, genio e sregolatezza, mentre invece il suo intento è avvicinare la sua arte e la traiettoria sgangherata della sua vita alla vita di ognuno di noi, sgangherata ciascuna a proprio modo.
Il regista decide, allora, di incastonare al racconto dell’oggi (da parte di chi c’è ancora) pezzi di rare interviste di Jean-Michel, frammenti di riprese inedite anche amatoriali, in cui parla della sua creativa rabbia, della volontà di cambiare “l’irrealistico modo in cui i neri vengono rappresentati nell’arte”, e di portare la strada sulla tela. Shulman riesce, così, a dimostrare che l’arte è la prova che la grazia è possibile anche nei cuori più sventurati.