Caso Cucchi La giustizia non sarà giusta, ma il film ci aiuterà a non dimenticare
Il Presidente Chiamparino getta la maschera e come i predecessori - da Brizio in poi - non resiste a fare il propagandista del TAV e del vero business che l’accompagna, il traforo di base.
Lì si guadagna. Lì ci sono gli appalti che contano.
Soldi pubblici, tanti, nelle casse delle imprese private, cooperative - bianche o rosse - incluse. Che non sono competitive sulla piazza internazionale, abituate come sono, al piatto ricco della partitocrazia clientelare che distribuisce, spartisce, accontenta tutti tra appalti e subappalti al limite della legalità.
Questo è il cambiamento che fa davvero paura.
Un tempo, almeno, le grandi opere pubbliche le realizzavano le Partecipazioni Statali e un po’ di utili rimanevano nella casse pubbliche. Ora bisogna invece finanziare una classe imprenditoriale in buona parte parassitaria, che investe nella speculazione finanziaria e chiede soldi pubblici per rischi d’impresa in cui nulla rischia. Ma garantisce poltrone a politici che passano, con disinvoltura, da incarichi pubblici a prestigiosi incarichi ai vertici delle Fondazioni bancarie, in un conflitto di interessi non tollerabile in un Paese democratico.
Nella storia personale di un onesto venditore di damigiane di vini astigiani, che oggi ci vuole vendere il bidone del traforo di base tra Lione e Torino, è riassunto il perché della ribellione del popolo.
Che forse ha le sue ragioni e non è, solo sempre, reazione populista.
Il vero far west è quello della Trattativa Stato-Mafia
“Mi ha colpito un fatto di cronaca. L’Italia non può somigliare a un far west dove un tale compra un fucile e spara”. Sentite queste parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ho immaginato che l’espressione “far west” si riferisse alle drammatiche vicende fatte e- HO LETTO CHE A SETTEMBRE arriverà sia nelle sale sia su Netflix il film “Sulla mia pelle”, che racconta la terribile storia di Stefano Cucchi. In particolare i suoi ultimi giorni, quelli in cui era nelle mani dello Stato. Al di là del fatto che non capisco la scelta della doppia “piattaforma” di distribuzione (perché uno dovrebbe andare al cinema quando può vederlo sul divano?), ma ancor più mi domando l’utilità di una pellicola del genere. Sarà che mi sento anche io, nel mio piccolo, abbandonato dallo Stato ma ha senso mostrare al mondo la brutalità di quella morte? GENTILE GIACOMO, sono convinta che la drammatica storia di Stefano Cucchi non finirà mai. Almeno, non come dovrebbe finire in uno Stato democratico e civile (mi correggo: in uno Stato democratico e civile la storia di Stefano non sarebbe proprio esistita). Il secondo processo vede sul banco degli imputati – a vario titolo– cinque carabinieri che in qualche modo ebbero a che fare con lui la notte dell’arresto, il 15 ottobre 2009. È il secondo processo perché il primo, a carico degli agenti penitenziari, si è concluso con le assoluzioni degli imputati dopo anni di perizie, testimonianze e inutili perdite di tempo. Per non parlare del terzo processo di appello ai medici dell’ospedale Pertini, nel cui reparto detentivo Stefano fu ricoverato. Ci troviamo oggi, nove anni dopo la sua morte, con la consapevolezza che per la giustizia italiana sarà difficile arrivare a un verdetto che faccia luce su quanto accaduto: lo spauracchio della prescrizione rischia di mandare a monte il lavoro che, in questa seconda indagine, ha svolto la Procura di Roma. E allora perché, dice lei, “mostrare al mondo la brutalità di quella morte”? Perché il caso Cucchi è diventato tale dopo la scelta coraggiosa della famiglia di mostrare le foto del cadavere: le immagini sono più mergere dalla recente sentenza sulla trattativa Stato-mafia. “Anche se i media di regime hanno minimizzato o occultato la notizia - ho pensato - l’intervento del Presidente della Repubblica ha sanato quella lacuna portando quei fatti sconvolgenti all’attenzione dell’opinione pubblica”.
Niente di tutto ciò, perché Mattarella si riferiva a un fatto di cronaca che, per quanto grave, rimane circoscritto a un episodio isolato che le indagini potrebbero anche clas- potenti dei faldoni giudiziari. Perché le persone devono sapere, perché tutto il mondo deve rendersi conto di quanto accaduto, perché, se anche la giustizia non sarà mai giusta, almeno una simile vergogna generi nell’opinione pubblica (e nelle stesse forze dell’ordine) uno sdegno tale che una analoga vicenda non si ripeta più. Non ho visto il film, e quindi non posso giudicare il lavoro del regista Alessio Cremonini, masono sicura che– anche soltanto basandosi sulle “carte”– le immagini che verranno fuori avranno un impatto dirompente. Ed è per questo che condivido la scelta di Lucky Red di dare a “Sulla mia pelle” la massima, e contemporanea, diffusione. Non importa dove lo si guardi, l’importante sarà farlo. sificare come incidente. Le trame eversive che, invece, hanno seminato terrore e morte e rischiato di destabilizzare il Paese, continuano così a essere pressocché ignorate dagli organi di informazione, tranne poche eccezioni, e a rimanere sconosciute alla maggioranza dei cittadini. Ma chi fa da sé fa per tre: letto il libro di Salvatore Borsellino La repubblica delle stragi, lo passerò al vicino d’ombrellone che farà altrettanto con chi gli è accanto e così via. Finite le vacanze, lo regalerò a qualche comitato studentesco, perché venga messo a disposizione della classe.
Conoscere per ricordare, perché solo la memoria condivisa trasforma una massa informe di individui in un popolo.
C’è troppa retorica sulla strage di Marcinelle
Ero piccolino in quei lontani anni ‘50 che vedevano partire i poveri con le valige di cartone dalle aree Sono rimasto molto stupito leggendo l’articolo apparso sul vostro giornale riguardo lo “storno” illecito di fondi raccolti da Unicef e Fondazione Pulitzer – parti lese insieme ai poveri bambini africani – che lasciava evincere l’assurdità per la quale i magistrati fiorentini hanno dovuto chiedere a queste organizzazioni umanitarie se “mai volessero” denunciare qualcuno. Il buonsenso, soprattutto a loro vantaggio, vorrebbe che in questi casi, le stesse corressero immediatamente in magistratura al primo accenno di questo genere di avvisaglie.
Perché rubare denaro destinato ad aiuti umanitari è doppiamente criminale. Da un lato si toglie pane dalla bocca di chi vive di stenti e malnutrizione. Dall’altro, sciaguratamente, si demotivano le donazioni inquinando e avvelenando la fiducia.
Questo è un enorme danno a scapito della parte più misera e bisognosa dell’umanità, a vantaggio di qualche sciacallo a cui il cibo di certo non manca.
Premesso che, prima di giudizi avventati i fatti vanno accertati a garanzia di tutti, penso che la denuncia di Unicef e Pulitzer come parti lese, sia una strada obbligata. Viceversa si darebbe un’impressione molto negativa: nell’ipotesi migliore una certa indifferenza sull’utilizzo fatto da alcuni, della generosità del prossimo, nella peggiore, una malintesa interpretazione di connivenza. Implicazioni da scongiurare come la peste.