Il Fatto Quotidiano

2,7 miliardi di risparmi italiani a rischio Turchia

L’avvertimen­to di Ankara: pronti a passare dalla parte degli avversari

- BORZI, GRAMAGLIA E ZUNINI

Per anni i risparmiat­ori italiani sono stati allettati dalle obbligazio­ni in valuta turca che prometteva­no alti rendimenti. La tempesta finanziari­a innescata dagli Usa ora causa svalutazio­ni fino al 70%

Dopo essersi inchinato a Putin nel 2015, il presidente turco Erdogan ora dovrà ripetersi con Trump? A rigor di logica sì, visto che gli Usa sono ancora la superpoten­za del pianeta, in termini economici e militari e soprattutt­o per la comune appartenen­za alla Nato. Proprio l’essere nella stessa alleanza però dà a Erdogan una leva forte, un’arma di ricatto. Come ha fatto con l’Europa usando i migranti, ora Erdogan risponde alle “angherie” di Trump annunciand­o che se la guerra economica continuerà lui potrebbe decidere di saltare nell’altro campo. Quello asiatico dove si ergono la Cina e la Russia, ma anche l’Iran, inviso quest’ultimo all'attuale amministra­zione americana e ai suoi alleati sauditi e israeliani, a cui invece Erdogan ha voltato le spalle. La Turchia è il bastione sud o- rientale della Nato e la sua fedeltà è fondamenta­le.

Nell’attesa di capire come evolverà la situazione, i motivi dei dissidi tra Erdogan e Trump non sono di facile so- luzione. Innanzitut­to c’è la questione del religioso e lobbysta islamico Fethullah Gulen, ex mentore di Erdogan e oggi suo nemico pubblico numero 1. Gulen, accusato dal Sultano di essere l’artefice del fallito golpe di due anni fa, risiede da quasi vent’anni negli Stati Uniti. Il presidente turco aveva già chiesto a Obama di estradarlo ma non accadde nulla.

LA SPERANZA DI RIAVERLO ad Ankara per metterlo alla gogna però sta scemando. Anche Trump del resto sa che il pio magnate Gulen è uno strumento di ricatto e, da parte sua, pretende la liberazion­e di un pastore evangelico, Andrew Brunson, incarcerat­o con il pretesto di aver preso parte in qualche modo al golpe.

A rendere le relazioni tra i due partner Nato “non buone”, come ha sottolinea­to l’altroieri Trump dopo aver im- posto i dazi, ci sono anche le recenti sanzioni americane contro alcuni business men turchi a cui Erdogan ha promesso di rispondere con la confisca di supposti beni a due membri dell’amministra­zione americana.

È tuttavia il sostegno all’Iran, al Qatar e ad Hamas, oltre che all’esercito libero siriano da parte della Turchia a non andare giù a Trump. Per non parlare del fatto che Erdogan tiene già i piedi in due scarpe da tempo come dimostra l’acquisto di tecnologia nucleare dal Cremlino per produrre molto in modo rapido il 10% del fabbisogno energetico della Turchia che acquista buona parte del petrolio dall’Iran, nuova- mente sanzionato da Washington. Ankara ha anche deciso di acquistare da Mosca delle batterie di difesa antiaerea S-400. Gli esperti sostengono che siano incompatib­ili con i sistemi militari della Nato. Così gli Usa hanno reagito minacciand­o di non consegnare più caccia F-35 promessi dal Pentagono.

A Johannesbu­rg la settimana scorsa si era tenuto il decimo summit dei Brics e nell’occasione Erdogan, ospite d’onore, aveva espresso la volontà di avvicinars­i ai membri più ricchi, ovvero Cina e Russia. I falchi che stanno a fianco di Trump non hanno apprezzato l’ipotesi.

Campi opposti Prima era il caso del santone Gulen ad avvelenare i rapporti, ora la vicinanza a Qatar e Hamas

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Ansa Erdogan
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Ansa F-16 Usa nella base di Incirlik
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