Legge Periferie, dal bonus Renzi ai fondi al Nord
Il bando era il solito “bonus a pioggia”, ma la sentenza del 2018 non lo vincolava a spostare i fondi
Cosa accade attorno all’ormai famoso bando per le periferie di Matteo Renzi? La classica tempesta in un bicchier d’acqua o, se qualcuno ricorda il classico di Tom Wolfe, un Falò delle vanità in cui tutti riescono ad aver torto. Intanto, il fatto: un emendamento presentato dalla Lega in Senato - e votato all’unanimità, Pd e Renzi compresi - ha sospeso per due anni (non eliminato) 96 dei 120 progetti approvati da Palazzo Chigi ai tempi di Renzi&Gentiloni per la riqualificazione delle periferie, nessuno di questi è in fase di gara; in soldi significa bloccare investimenti per 1,6 miliardi circa su 2,1 stanziati in totale (ma finora finanziati solo parzialmente).
I soldi “liberati” - 140 milioni quest’anno, 320 il prossimo, 350 nel 2020 e 220 milioni nel 2021 - vengono destinati a sbloccare gli avanzi di amministrazione dei Comuni “virtuosi”: quelli che hanno soldi in cassa, ma non possono spenderli per via delle regole sull’equilibrio di bilancio degli enti locali che gli assegna rigidi obiettivi annuali. Ovviamente i sindaci che si sono visti rinviare di due anni i progetti non l’hanno presa bene: temono, soprattutto, che alla fine quei soldi spariranno per sempre. Tra i 24 progetti “salvati” (già esecutivi) ci sono quelli di Roma, Torino, Modena, Bologna e della città metropolitana di Bari; tra i “sommersi” Firenze, Milano, Livorno, Treviso e le (ex) province di Roma e di Torino.
PERCHÉ? L’em en da me nt o “incriminato” è una legittima operazione politica della Lega e della maggioranza, peraltro inizialmente avallata dal Pd, che ha almeno un paio di motivi: uno, volendo, più nobile; l’altro meno. Il bando delle periferie, infatti, è una classica operazione “alla Renzi”: una sorta di “bonus sindaci” affidato direttamente da Palazzo Chigi per gentile concessione dell’ex sovrano. Le scelte sono state un po’ così: riqualificare le periferie è una bella cosa, ma forse - con tutto il rispetto per
Il punto debole
Non è detto che il miliardo ridestinato ai Comuni virtuosi sarà speso più in fretta
i problemi di Viterbo, Cuneo e Biella - ci si poteva concentrare sulle grandi aree urbane degrate (la sola Ostia ha 100mila abitanti) e circoscrivere meglio i campi d’intervento (a scorrere i progetti si passa dalle riqualificazioni di immobili alle piste ciclabili, dal “welfare urbano” al social food).
Anche la ripartizione dei fondi lascia qualche perplessità: la Toscana, per non fare che un esempio, è destinataria del 15% circa dei fondi (300 milioni) con meno del 7% della popolazione e senza avere una metropoli sul suo territorio. Si può certo, dunque, sostenere che i progetti vanno rivisti, ma l’uso che si è poi scelto di fare dei soldi denuncia l’intento “politico”: i Comuni virtuosi infatti, quelli che hanno consistenti avanzi di cassa da spendere, si trovano soprattutto al Nord, bacino di riferimento della Lega; i 96 capofila dei progetti bloccati sono invece in gran parte a guida centrosinistra. È poco corretto dire, come ha fatto Giancarlo Giorgetti sul Fatto del 9 agosto, “equità e giustizia per tutti i Comuni: 90 sindaci arrabbiati, 8.000 festeggiano”.
LA SENTENZA. I sindaci coinvolti, come detto, sono in rivolta: Antonio Decaro, presidente dell’Anci, ha parlato di “furto con destrezza”; il 5 Stelle Filippo Nogarin, primo cittadino di Livorno, di “toppa peggiore del buco”; il leghista Mario Conte chiede che “i fondi siano reinseriti nella finanziaria”. La maggioranza “gialloverde”, insomma, si ritrova di fronte a una reazione – cavalcata anche dal Pd, che ora sostiene di aver votato a favore perché non aveva capito – che pare non aver messo in conto. Per uscirne la sottosegretaria all’Economia Laura Castelli ha, tra le altre cose, sostenuto che l’intervento era necessario dopo la sentenza della Corte costituzionale ( 74/ 2018) che ha bocciato il “Fondo investimenti” di Palazzo Chigi – in cui c’è anche il Bando per le periferie – nella parte in cui non prevedeva il passaggio in conferenza Stato-Regioni (un vizietto tipico degli anni renziani). Motivazione debole. Ha buon gioco, nello smontarla, il deputato del Pd Luigi Marattin: “Si tratta di una semplice questione procedurale e non di sostanza. Che non giustifica certo tenere bloccati per due anni i Comuni che sono ad un passo dalla gara per l’affidamento dei lavori”. Di fatto si poteva portare la cosa in conferenza e cavarsela con una settimana: questo tipo di intervento non è imposto dalla sentenza della Consulta.
I CONTI DEI COMUNI. Dice ancora Castelli: “Ci lascia esterrefatti che il Pd, responsabile delle politiche di tagli e del crollo degli investimenti pubblici, accusi l’attuale governo che ha invece sbloccato risorse altrimenti ferme”. Il governo, in realtà, non ha sbloccato alcunché, ma solo spostato risorse: va dimostrato a consuntivo, poi, che quei soldi saranno spesi più in fretta dai primi cittadini “virtuosi” piuttosto che col bando renziano.
Altro tema è la situazione finanziaria dei Comuni: sono stati loro (con le ex province) a sostenere infatti il carico maggiore delle politiche di austerità fatte in Italia, scaricando l’onere ovviamente in minori servizi o maggiori costi per i residenti.
La quasi totalità dei tagli ai Comuni furono decisi dai governi Berlusconi (2010-2011) e Monti (2011-2012), mentre gli esecutivi successivi – t ut t i quelli a guida Pd – si sono in sostanza limitati a confermare quelle scelte pluriennali. La situazione è stata poi resa più difficile dalle varie regole sul “pareggio di bilancio” per gli enti locali: è quell’equilibrio rigido fra entrate e spese che blocca gli investimenti persino quando i sindaci hanno i soldi in cassa e necessita di regolari provvedimenti “sblocca fondi” da parte del Parlamento (anche sulla scorta di una sentenza della Consulta). Su questo, ovviamente, 5 Stelle e Lega non hanno responsabilità: le avranno dal prossimo 1° gennaio però.