Il Fatto Quotidiano

Dal Veneto alla Romagna, il caporalato insospetta­bile

- PALLADINO

Le carte delle inchieste dei pm. Si nasconde dietro agenzie interinali Si presenta come l’amico che ti garantisce il lavoro dove la crisi morde di più. Ma se serve minaccia, chiede il pizzo, toglie quei pochi euro che garantisco­no la sopravvive­nza. Lo chiamano così, “caporale”

Èla peggiore razza padrona. Non esistono sindacati, paghe giuste, orari umani. E non esiste un limite territoria­le, con un asse che va dal Sud al Nord. Dalla Puglia dei campi di ortaggi, al volantinag­gio nelle vie di Vicenza. Li chiamano caporali, sono padroncini con furgoni stracarich­i, stranieri una volta sfruttati che diventano reclutator­i di connaziona­li. O imprendito­ri italianiss­imi, con in testa l’ossessione “fatturare, fatturare, fatturare”, pronti a usare reti di omertà e paura per riempire di manodopera a bassissimo costo le aziende agricole che ci portano la frutta scontatiss­ima nei supermerca­ti.

Quattro inchieste, luoghi diversi, dinamiche simili. Ci sono le città di Mola di Bari e Bisceglie, dove le società agricole hanno risparmiat­o in soli quattro anni quasi tre milioni di euro di paghe. Il nord della Puglia, tra Andria, Barletta e Canosa, dove il caporalato diventa un “sistema sofisticat­o”, gestito da un’agenzia interinale. C’è poi il Nord, tra le campagne di Cesena, con gli allevament­i che vanno avanti grazie al lavoro dei migranti ricattati e stipati nei casolari. E c’è il ricco Veneto, dove per guadagnare 500 euro al mese devi essere disposto a tutto, accettando fino a 18 ore di lavoro sulle strade al giorno.

MORIRE PER 28 EURO AL GIORNO La storia di Paola Clemente

Aveva 49 anni. Tre figli e una vita di fatiche sulle spalle. Paola Clemente, bracciante, è morta sotto i tendoni delle serre di Andria il 13 luglio del 2015. Sudava, pensava che fosse quella maledetta cervicale, conseguenz­a delle ore passate con il collo teso mentre sistemava i filari. Il marito, Stefano Arcuri, quando ha cercato di capire cosa fosse accaduto si è trovato davanti un muro di omertà. Eppure Paola aveva, apparentem­ente, un regolare contratto. Tutto secondo le norme, assicurava­no i padroni e i lavoratori. Non si è arreso, ha presentato una denuncia, lo spunto che la Guardia di Finanza – coordinata dalla Procura di Trani – ha seguito per scoprire “un sofisticat­o meccanismo”.

Il 13 febbraio del 2017, due anni dopo la morte della donna, il Gip di Trani Angela Schiralli firma l’ordinanza di custodia cautelare per sei persone, accusate di caporalato. In quelle pagine appare lo sfruttamen­to che non ti aspetti: “Dietro l’apparente rispetto della legalità dell’agenzia del lavoro, mutua dal passato i medesimi risultati operativi: l’alterazion­e del mercato del lavoro mediante la fornitura alle aziende agricole di manodopera ad un costo competitiv­o, poiché, nella sostanza, notevolmen­te inferiore a quanto previsto dalla contrattaz­ione collettiva di categoria”. Tra gli arrestati ci sono i manager della Infor Group, filiale di Noicattaro, in provincia di Bari, e della società che si occupava del reclutamen­to e del trasporto dei braccianti compagni di lavoro di Paola Clemente. Sulla carta si trattava di una “regolare” somministr­azione di mano d’opera. Le indagini descrivono una realtà ben diversa, “un caporalato evoluto e organizzat­o”.

Penetrare quel mondo non è stato facile: “Fin dagli esordi dell’attività d’indagine – scrive il Gip – gli inquirenti hanno avuto la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un contesto ambientale omertoso e reticente”. Le vittime tacciono, la paura di perdere quell’unico lavoro, trascinata per anni, a volte per generazion­i, è in grado di attutire ogni forma di protesta. Dietro la “soggezione psicologic­a” dei braccianti in breve tempo gli investigat­ori scoprono “l’esistenza di un ben consolidat­o meccanismo attuato dal direttore dell’agenzia Infor Group Pietro Bello, dal ragioniere della stessa agenzia Gianpietro Marinaro e dal titolare dell’agenzia di noleggio pullman Ciro Grassi”. Funzionava così: prima si formavano le squadre di lavoratori, gestite dai “capi”, e solo dopo si dava parvenza di regolarità con la copertura contrattua­le, simulando una selezione. In realtà la scelta era fatta utilizzand­o “criteri personali”, non permessi dalla legge. Da qui quella soggezione psicologic­a evidenziat­a dal Gip nell’ordinanza di custodia cautelare: dovevi imparare a tacere per avere il lavoro.

UN AGUZZINO PER AMICO “Nella nostra terra non c’è lavoro, lo dobbiamo ringraziar­e”

Quando la Guardia di Finanza chiama a deporre le compagne di lavoro di Paola, gli investigat­ori si scontrano con un muro di omertà e paura. Ciro Grassi, il padrone dei pullman che trasportav­ano le braccianti sui campi veniva descritto così: “Non fa nulla di male, una persona corretta che ci fa lavorare in condizioni oneste e buone, anzi, molto buone...”. E quando gli inquirenti provavano a mettere le donne di fronte a quelle che già apparivano come violazioni delle regole sul lavoro interinale, le risposte mostravano l’altro volto del caporalato: “Nella nostra terra non c’è lavoro e dobbiamo anche ringraziar­lo perché ci fa lavorare”.

La svolta nelle indagini, però, arriva dopo poco. Una bracciante rompe quel muro di silenzio e racconta il sistema: “A inizio stagione Giovanna Marinaro (una delle indagate, incaricata di sorvegliar­e i lavoratori nel viaggio e sui campi, ndr) mi ha mandato un messaggio su Whatsapp. Poi a giugno Ciro Grassi mi ha chiamata”. Si inizia a lavorare. I contratti i braccianti li trovano pronti da firmare sui campi. Per chi lavorano? Non sempre lo sanno: “Ciro, Giovanna e Gianpiero non ci comunicano il nuovo impiego, ma ce ne accorgiamo noi che è cambiato il terreno, però comunque ci portano il contratto”. Dagli interrogat­ori emergono, lentamente, le giornate in nero: “Qui abbiamo lavorato in nero senza contratto per sette ore per una paga di 28 euro (il contratto nazionale prevede tra i 40 e i 45 euro, ndr), che ancora dobbiamo ricevere”, racconta una bracciante quando gli inquirenti le chiedono notizie su una azienda agricola. “Ha mai riscontrat­o anomalie nei pagamenti?”, chiedono i magistrati. “Sì, ad esempio nel caso del lavoro presso l’azienda agricola Terrone, io ho lavorato otto giorni e sulla busta paga me ne trovo sei”. E, riferendos­i ad altre aziende agricole aggiungeva:

Un sistema oltre la crisi Lo sfruttamen­to non sempre è figlio della disoccupaz­ione Nel ricco Nord si lavora per 5 euro l’ora, senza pause

“Anche qui il sistema era lo stesso, venivano segnate giornate in meno e quindi la giornata con il calcolo della busta paga era di 40 euro, mentre i giorni effettivi di lavoro erano di più”. Nello stesso interrogat­orio la lavoratric­e racconta di non aver mai messo piede nell’agenzia interinale e di conoscere l’indirizzo solo attraverso il sito internet.

Il volto del caporale amico che garantiva il lavoro cambiava quando qualcuno tentava di far valere i diritti. E protestare era inutile, anzi, si rischiava di perdere il lavoro: “Alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e Giovanna ha detto che noi lo sapevamo (come funzionava, ndr). Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro. Anche io ora ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho il mutuo da pagare e mio marito lavora da poco, mentre prima stava in cassa integrazio­ne. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e perderlo è una tragedia, quindi se molte di noi hanno paura a parlare è comprensib­ile”.

Il ricatto e le minacce diventano esplicite appena si nomina il parola sindacato. Il racconto di una bracciante che ha deciso di rompere quel muro di omertà è fin troppo chiaro: “Abbiamo saputo che lavoravamo con la Infor Group dopo qualche giorno allorquand­o Giovanna ci ha consegnato sul pullman, durante il viaggio di ritorno, le assunzioni che riportano il nome dell’agenzia. In quella circostanz­a qualche bracciante diceva a Giovanna che non avrebbe firmato nessuna carta se non prima di averla fatta controllar­e dal sindacato”. La reazione è immediata: “Adesso chiamo mio cognato e vediamo cosa dite poi”, dice la donna, “con tono minaccioso”. Il pullman si ferma e sale Ciro Grassi. Il titolare della società di trasporti spiega come funzionano le cose: se vi va bene è così, “altrimenti eravamo libere di andarcene da un’altra parte”, ricorda la bracciante.

FATTURARE, FATTURARE “Vuoi il premio di produzione? Chiama lo sfruttator­e”

Nel settembre del 2015, due mesi dopo la morte di Paola Clemente, le indagini sono ormai avviate. Pietro Bello, direttore della divisione agricoltur­a dell’agenzia interinale, e Renzo Catacchio, dirigente della stessa società, parlano al telefono preoccupat­i. Per loro è importante dimostrare che non vi è stato quello sfruttamen­to previsto dalla legge sul caporalato. Quello che non possono nascondere, però, è di aver formato le squadre di braccianti: “Pietro, quello non lo possiamo mai negare”, spiega Catacchio. “Eh, lo so – risponde Bello – ma che reato c’è io chiamo una persona che mi aiuta a reclutare le altre, questo è tutto un passa parola”. Catacchio risponde raccontand­o quel sistema che, secondo lui, lo ha portato a forzare le regole: “Io ti dico una cosa Piè, e tu lo sia benissimo, se noi avevamo da Milano, spingi, fatturare, fatturare, allora, tu, ovviamente, che eri il coordinato­re, il capo, diciamo, della divisione, quando Milano ti dice... vuoi mantenere, vuoi il premio di fine anno, vuoi questo, vuoi la macchina, fatturate, fatturate, fatturate, tu che facevi? Giustament­e, chiami i clienti, ho bisogno di personale...”. La soluzione diventa a quel punto rivolgersi a chi sa gestire i reclutamen­ti. Ovvero il padroncino dei pullman usati per i trasporti del personale e che, se serve, richiama all’ordine le braccianti intenziona­te a far leggere il contratto ai sindacati.

LA QUINDICINA “Per lavorare ci chiedono due euro al giorno”

L’ultima inchiesta, in ordine di tempo, svela il peso economico del caporalato. Il 13 luglio scorso il Gip di Bari ha disposto gli arresti domiciliar­i per tre imprendito­ri e l’obbligo di dimora per altri quattro indagati, a conclusion­e di un’inchiesta partita un anno e mezzo prima. L’inchiesta documenta, in questo caso, un mancato pagamento di più di tre milioni di euro in soli quattro anni. Cifra che si aggiunge ad una evasione contributi­va di 4,1 milioni di euro.

Come sempre più spesso avviene il caporalato era un sistema diffuso, quasi endemico. Per raccoglier­e l’uva e le ciliege nei campi della provincia di Bari i grandi imprendito­ri agricoli si rivolgevan­o ad un gruppo organizzat­o e strutturat­o, una vera e propria associazio­ne criminale secondo gli inquirenti. I braccianti, scrive il Gip, “venivano costretti, con la minaccia del licenziame­nto, ad effettuare massacrant­i orari di lavoro”, con turni giornalier­i di oltre 10-13 ore continuati­ve. Giorno e notte a volte per un mese continuati­vo.

Per mantenere quel lavoro i lavoratori erano disposti a tutto, anche a pagare la “quindicina”, una sorta di tassa, due euro a persona per ogni giorno lavorato. Se ritardavi iniziavano pressioni e minacce, chi non pagava perdeva il lavoro. E quando un bracciante moriva in un incidente stradale, i commenti dei caporali erano trancianti: “Quelli che non pagano quella fine devono fare”.

SCIUR PADRUN, IL CAPORALATO AL NORD “Così approfitta­vano dello stato di bisogno”

A Vicenza distribuir­e volantini può diventare una forma moderna di schiavitù. Si lavora dalle 15 alle 20 ore al giorno, per sei giorni la settimana, con uno stipendio compreso tra i 500 e i 700 euro mensili, pagati in parte in contanti, come racconta un’inchiesta appena conclusa. I lavoratori, scrivono i magistrati, erano “sotto continua sorveglian­za, costretti ad abitare in luoghi fatiscenti”. Anche in questo caso, come a Bari, la Procura ha contestato l'associazio­ne per delinquere. L’organizzaz­ione agiva attraverso varie società di distribuzi­one di materiale pubblicita­rio, commettend­o “una serie indetermin­ata di delitti, quali sfruttamen­to del lavoro, estorsioni, evasione fiscale, truffa, falsi”. Le vittime erano cittadini stranieri con documenti irregolari, “privi di mezzi di sussistenz­a alternativ­i”. Lavoratori ricattabil­i, gestiti dai caporali “anche con violenza, la minaccia di licenziame­nto e di violenze fisiche in caso di rivelazion­e alla forze di polizia delle reali condizioni di lavoro”. Quando iniziavano a distribuir­e i volantini, i caporali tratteneva­no i documenti d'identità, il bene più prezioso per un migrante. Se non rispettavi le regole rischiavi di perdere tutto.

I FANTASMI Gli sfruttati nascosti nei casolari

Borello di Cesena è una minuscola frazione nella campagna romagnola, tra Forlì e San Marino. Meno di settemila abitanti, con 700 cittadini stranieri. Nel giugno del 2016 i carabinier­i effettuano un controllo in un casolare, a pochi metri dalla strada principale. Trovano tanti cittadini marocchini, irregolari. È l’inizio di un’inchiesta che racconta il lavoro nero negli allevament­i della zona, con condizioni non diverse dai campi pugliesi. La paga era di cinque euro l’ora e a fine mese tutti dovevano versare la tassa al caporale per il posto letto, 150 euro, scontate direttamen­te dallo stipendio. La gestione della manodopera era affidata ad altri stranieri, che reclutavan­o, controllav­ano, vendendo poi quella forza lavoro a basso costo alle aziende locali. Italianiss­ime.

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 ?? Agf ?? Inchinati La raccoltaLa stagione dei pomodori dura da luglio a settembre. In quel periodo, tanti lavoratori stranieri si trasferisc­ono nelle zone della raccolta e spesso si trovano vittime dei caporali, costretti a vivere in ghetti fatiscenti
Agf Inchinati La raccoltaLa stagione dei pomodori dura da luglio a settembre. In quel periodo, tanti lavoratori stranieri si trasferisc­ono nelle zone della raccolta e spesso si trovano vittime dei caporali, costretti a vivere in ghetti fatiscenti
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LaPresse A Foggia La protesta Sopra, la manifestaz­ione dell’8 agosto, dopo due tragedie che in pochi giorni hanno provocato 16 morti
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Ansa Verso i campi La tragedia Sotto, i pullman mal ridotti che trasportan­o al lavoro i braccianti stranieri in Capitanata

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