Il Fatto Quotidiano

In Sud Sudan la pace in bilico sull’oro nero

Fragile tregua I due “elefanti” al potere alternano una feroce guerra fra le loro etnie a temporanei accordi per spartirsi risorse e ricchezze, ma il Paese è allo stremo

- » MICHELA A. G. IACCARINO

Un vecchio proverbio africano dice che “quando combattono gli elefanti, è sempre l’erba a rimanere schiacciat­a”. E quando combatteva­no gli elefanti in Sud Sudan era sempre l’ultima ora di qualcuno. Ora i due pachidermi, il presidente in carica Salva Kiir e il suo ex vice, poi nemico mortale, Riek Machar, si sono seduti di nuovo allo stesso tavolo per trovare un accordo di pace nello Stato più giovane del mondo. Ha solo sette anni, il Sud Sudan, e da cinque è dissanguat­o dalla guerra civile, esattament­e quando i due signori della guerra hanno smesso di essere amici. Adesso Stato Radio Juba dice: “Il presidente Salva Kiir, con decreto presidenzi­ale, ha concesso l’amnistia a Riek Machar e i gruppi in armi contro il governo”. È accaduto sei giorni fa, grazie al cessate il fuoco raggiunto tra i soldati ribelli di Machar e l’esercito di Kiir lo scorso giugno. Fino ad oggi le zone di controllo e confine tra le due fazioni etniche erano a geometria variabile, definite ogni giorno nel deserto africano a colpi di kalashniko­v, stupri etnici e devastazio­ne. In uno Stato più africano degli altri adesso all’orizzonte non ci sono solo le donne con ceste in equilibrio sulla testa, ma anche una tregua.

DOPO fosse comuni, scontri tribali, cannibalis­mo forzato da Jongelei fino a Unity, undici prove di cessate il fuoco susseguite­si in questi anni, questo è il secondo accordo di divisione dei poteri firmato da Kiir, di etnia Dinka, e Machar, di etnia Nuer. Da quando nel 2013 sono scesi in guerra, le loro truppe li hanno seguiti, lasciando sotto gli stivali dei soldati decine di migliaia di morti, cinque milioni di sfollati, il Paese sull’orlo della carestia. La firma di questo accordo è un’argine che può fermare la violenza, mettere fine alla guerra, alla fuga degli sfollati, a stupri di massa, violenze etniche, in un Paese dove gli aiuti alimentari evitano la morte a 5 milioni di persone, che vivono grazie alle donazioni delle organizzaz­ioni internazio­nali. Inghiottit­i dalla polvere della cronaca e ora liberati, sono migliaia i bambini soldato che erano stati costretti a stringere il fucile e combattere per i gruppi armati del territorio che ora potranno tornare a casa.

Ma già molte volte nella terra dei neri – questo vuol dire Sud Sudan – i rintocchi della Storia hanno suonato con campane di festa e poi di nuovo a morto: dopo il conflitto con il Sudan e l’indipenden­za raggiunta nel 2011, la guerra civile è scoppiata nel 2013. I primi negoziati tra Kiir e Machar sono falliti nel 2014, il primo accordo di pace invece nel 2015, ma il presidente Kiir è convinto che questo sarà l’ultimo, il definitivo, il migliore: l’accordo della regolarizz­azione perpetua delle tensioni. È stato siglato a Khartoum, capitale del Sudan (del nord), dopo un mese di discussion­i: la soluzione condivisa prevede la formazione di un governo di transizion­e. Tornerà in patria Machar, in carica come vicepre- sidente, stesso incarico che aveva quando nel 2016 è dovuto scappare dalla capitale Giuba. Al potere rimarrà per tre anni, con mandato nel governo d’unità fino al 2021, anno delle prossime elezioni.

CON DECINE di migliaia di morti alle spalle, un terzo della popolazion­e lontana da casa, negli Stati confinanti o rifugia- ta nelle zone franche, la guerra potrebbe finalmente finire adesso perché interessa ad entrambi gli “elefanti”. Ma in Sud Sudan la giustizia è nera come il continente. E dello stesso colore pece è questa pace, che galleggia tutta sul petrolio: sia Kiir che Machar possiedono proprietà multimilio­narie nelle risorse del Paese, da far fruttare. La tregua ora convie- ne. Nessuno di loro due pagherà per le violazioni dei diritti umani o per lo stillicidi­o economico compiuto ai danni delle risorse dei loro cittadini. Insieme alle potenze regionali, l’Uganda su tutti, e agli Usa, anche il Sudan ha insistito per tenere incollati alle trattative il primo uomo dei Dinka e il primo dei Nuer: per il petrolio che è a sud, e per gli impianti di raffinazio­ne dell’oro nero che sono invece a nord, bisogna andare tutti d’accordo.

LA STORIAdel Paese è stata un montaggio alternato di catastrofi che si ripetevano simili sotto titoli e date diverse negli

anni. A volte al rallentato­re, a volte accelerata da risvegli improvvisi, dopo il lungo sonno africano. Quando si sparava, laggiù nel bush, al tramonto, il deserto di cespugli avanzava e ululavano quelli che erano forse cani. Come in una sinfonia nel buio, rispondeva­no col pianto i bambini. Seguiva quello delle madri, se uno di loro moriva. Poche luci accese, molte le scintille dei falò.

Il ritmo era quello del rumore del generatore dell’elettricit­à, il metronomo della vita che scandisce l’ordine del giorno in Africa. La colla di suoni della radio poi si diffondeva nella provincia di Lui: e- rano le voci che trasmettev­ano da Giuba notizie che tutti corrono ad ascoltare per sentire se tra i nomi dei morti ci sono quelli di nemici o amici, feriti nella loro tribù o fra gli altri. Se c’è progresso nella pace o nella guerra. Poi il silenzio faceva avanzare di nuovo il buio. Se ce n’erano, il lutto per il bollettino durava pochi secondi, quelli che puoi permettert­i nella terra dei neri, perché c’è spazio per tutto in Africa, ma tempo per niente.

LE OREnon le puoi usare se non per provvedere alla sopravvive­nza: la tua, di tuo figlio, della famiglia. Quando ritornava il buio, avanzava il silenzio. Poi si ritornava in capanna. Di fame, di guerra: moriamo. Lo ripeteva chi era scampato ai combattime­nti dei soldati delle due fazioni opposte, in lotta: “Sono nato in guerra, invecchier­ò in guerra, se mi va bene”. I proiettili hanno bersagli, non nemici: colpivano i civili che si ritrovano intrappola­ti in mezzo al fuoco delle due etnie, nei giorni più furiosi della guerra etnica. Quasi mai resistono o esistono altri dettagli quando questo succede in Africa, dove tutto è luce o buio, sì o no, vita o morte, bianco o nero. La pace o la guerra.

MOLTA PARTE dell’enorme Africa si regge sull’equilibrio di questi due contrasti, una metà che tiene in piedi l’altra. Nel distretto di Lui, Equatoria Ovest, ti ripetevano soprattutt­o una parola, kawaja: la prima parola che l’Africa ti insegna per ricordarti a che tribù appartieni tu, uomo bianco.

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Il vessilloLa bandiera repubblica­na del Sud Sudan
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