Turchia, le due opzioni di Erdogan: stretta fiscale e recessione o autarchia
Il debito pubblico del Paese è basso, la situazione è rimediabile ma il rapporto tra politica ed economia fa temere il peggio
Gli ultimi giorni hanno visto una tempesta su moneta e titoli di Stato della Turchia. Gli investitori hanno atteso il catalizzatore per un violento attacco speculativo contro un Paese che da tempo è caratterizzato da ampi squilibri macroeconomici. Quel catalizzatore è stato dato da sanzioni da parte dell’Amministrazione Trump contro due esponenti del regime turco a causa del mancato rilascio di un pastore evangelico statunitense, detenuto in Turchia da due anni con accuse di spionaggio e terrorismo relative al tentato colpo di Stato 2016. Tanto è bastato per indurre una fuga dalla lira e dai titoli di Stato di Ankara. Sommando danno e beffa, Trump ha poi adeguato i dazi su acciaio ed alluminio turchi al crollo della lira. Al potere dal 2002, Recep Tayyip Erdogan ha dapprima favorito il rilancio dell’economia turca in senso favorevole alle imprese e all’apertura ai mercati internazionali, beneficiando di forti investimenti diretti esteri; ma la progressiva involuzione autocratica, dopo gli attacchi terroristici del 2015 e il tentato colpo di Stato del 2016, ha portato alla perdita di disciplina fiscale e monetaria.
Erdogan ha più volte bullizzato la banca centrale turca, sostenendo la bizzarra tesi che alti tassi d’interesse causerebbero inflazione, si è attribuito l’esclusiva della nomina del governatore dell’istituto di emissione e ha posto il genero alla guida del ministero delle Finanze. L’ampio deficit delle partite correnti, pari ormai al 6% del Pil, esacerbato dal rialzo del prezzo del greggio, di cui il Paese è grande importatore, e dalla forza del dollaro, ha portato a crescenti pressioni ribassiste sul cambio.
La banca centrale è stata timida nel contrastare il surriscaldamento dell’economia e l’inflazione, ormai oltre il 15%; tassi reali troppo bassi stimolano l’economia oltre il necessario e accentuano pressioni speculative e fughe di capitali. Il Paese ha un debito estero netto pari a circa il 35% del Pil e riserve valutarie di poco più di 100 miliardi di dollari, mentre entro maggio del prossimo anno sca- dranno debiti del settore privato per 70 miliardi di dollari. Il rischio di dissesti ed aumenti di sofferenze bancarie è reale. Erdogan ha due alternative: attuare una stretta fiscale e lasciare che la banca centrale alzi i tassi d’interesse, con inevitabile impulso recessivo s ul l ’ economia; oppure prendere la via dell’autarchia dopo l’inevitabile crisi di bilancia dei pagamenti, con chiusura ai mercati internazionali e controlli sui capitali, la strada verso l’impoverimento del Paese e possibilmente la sua dollarizzazione o eurizzazione, già oggi in atto a fini di tutela dei risparmi.
Il Paese ha un basso debito pubblico e delle famiglie, pari rispettivamente al 28% ed al 17% circa del Pil, quindi la situazione è rimediabile. Ma la sindrome da accerchiamento di cui soffre Erdogan non depone a favore di una resipiscenza.