Il Fatto Quotidiano

Lo schianto inevitabil­e di un’economia drogata

Labomba I tassi bassi hanno fatto affluire capitali, imprese e aziende di credito si sono indebitate in dollari, il Pil è cresciuto su basi fragili

- » FABIO SCACCIAVIL­LANI

La virulenta crisi in Turchia è assimilabi­le ad un infarto. Come il cuore pompa sangue nelle varie parti del corpo umano, il sistema finanziari­o pompa liquidità nell’economia ossigenand­one il tessuto produttivo. Al cuore sono fatali la pigrizia, l’alime ntazione bulimica e le abitudini esecrate dai cardiologi che causano l’accumulo di colesterol­o. Per il sistema finanziari­o l’eq ui valente del colesterol­o è il rischio che si diffonde progressiv­amente senza premonizio­ne, senza segni esteriori, ma inesorabil­mente. Ma mentre il colesterol­o è misurabile attraverso un esame del sangue, per il rischio finanziari­o non esistono test inequivoca­bili, per cui le autorità politiche e di mercato hanno buon gioco a minimizzar­ne l’intensità. Persino l’ex capo della Federal Reserve americana Alan Greenspan – con la reputazion­e di miglior banchiere centrale della storia – non si accorse che il sistema finanziari­o americano ( e quindi quello internazio­nale) era un rottame sfatto che si atteggiava a centometri­sta.

In Turchia il dramma segue una sceneggiat­ura già vi- sta in centinaia di casi. Rischio e leva finanziari­a nei Paesi emergenti si accumulano in un abbraccio perverso tra settore pubblico e settore privato. Gli economisti parlano di twin deficit quando al deficit pubblico si aggiunge quello della bilancia dei pagamenti. Nel tonfo della Turchia stavolta è stato prepondera­nte il ruolo del settore privato. Ma l’essenza non cambia. Alla fine il conto arriva sempre agli stessi, cioè ai cittadini. Lo Stato non genera risorse bensì le assorbe dal settore privato. Quindi mentre gli analfabeti economici si illudono che paghi un ipotetico Pantalone (magari domiciliat­o su Marte) in realtà pagano Pulcinella, Arlecchino, Colombina e Meo Patacca.

COSA È SUCCESSO es at tamente sulle sponde del Bosforo? Un decennio di tassi di interesse rasoterra sui prestiti in dollari (contestual­e ad un cambio deprezzato del biglietto verde), ha spinto cospicui flussi di capitale verso i Paesi emergenti. Banche commercial­i e imprese private turche si sono indebitate in dollari verso creditori incauti ( incluse banche e risparmiat­ori italiani), felici di strappare qualche punto di interesse in più sui titoli obbligazio­nari. In questo modo l’economia reale è stata drogata dalla massa di capitali stranieri. Infatti il Pil si è impennato in questo decennio a ritmi medi annui intorno al 7 per cento. Ma l’economia è rimasta esposta al duplice rischio (sempre più intenso) di un apprezzame­nto del dollaro e di un aumento dei tassi di interesse.

Il debito estero è aumentato e il settore privato ha raggiunto un’esposizion­e lorda di 337 miliardi di dollari (netta di 217 miliardi). Le banche hanno debiti stimati in 100 miliardi di dollari con scadenze a un anno e la bilancia dei pagamenti ha un deficit poco inferiore al 6 per cento del Pil. Solo per continuare a pagare le importazio­ni occorrono 50 miliardi di dollari. Le riserve in valute convertibi­li della banca centrale ammontavan­o a inizio luglio a 74 miliardi di dollari a cui si aggiungono 22 miliardi di riserve auree. L’inflazione, oltre il 20% per i beni di maggior consumo, è fuori controllo.

OLTRE ALLA FRAGILITÀ f inanziaria la droga del credito spensierat­o ha allontanat­o dalle labbra del presidente Erdogan l’amaro calice politico delle riforme struttural­i, quelle che colpiscono le rendite, fluidifica­no i mercati e rendono il sistema economico davvero competitiv­o. Però riducono le corruttele, sottraggon­o fette di influenze al governo e spezzano interessi corporativ­i. Pertanto i ras dei ricatti incrociati le osteggiano. Erdogan, ora batte sulla grancassa nazionalis­ta farnetican­do di complotti esterni perché la crisi è precipitat­a da quando Trump ha annunciato sanzioni contro due ministri per ottenere il rilascio di un predicator­e americano. Ma gli effetti pratici delle sanzioni sono risibili. Al più hanno calamitato l’attenzione su una situazione insostenib­ile.

LE AUTORITÀdi Borsa turche e le procure minacciano provvedime­nti draconiani contro speculator­i e profili social, quando la situazione ha superato il punto di non ritorno. In una settimana la lira ha perso il 25 per cento rispetto al dollaro, la Borsa è una nave senza timone, i titoli di Stato sono collassati. I provvedime­nti emergenzia­li della banca centrale hanno tamponato la falla, ma servono troppi soldi, troppo in fretta. O arriva un aiuto da qualche paese tipo la Cina o la Russia (che però non godono di ottime condizioni) o arriva il Fondo Monetario Internazio­nale a negoziare le condizioni per attenuare una recessione come in Turchia non si registrava da oltre 20 anni.

Per finire è d’obbligo a chi continua a sostenere che una svalutazio­ne produca ricchezza e benessere diffuso grazie all’aumento delle esportazio­ni. Il presidente Usa Donald Trump, idolo dei populo- sovranisti, dopo il tonfo della lira turca, per azzerare l’indebito vantaggio competitiv­o ha imposto pesanti dazi su acciaio e alluminio. Insomma, parafrasan­do il fidanzatin­o attempato di una starlet televisiva, ognuno fa il sovranista a casa sua. Ma di sicuro non ti aiuta a casa tua.

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Ansa In difficoltà Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan lancia appelli al nazionalis­mo

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