Street art Non sono certo i writers a minacciare il “decoro urbano”
La legge 20.5.1970 n. 300 stabiliva all’articolo 18 il diritto a essere reintegrato nel proprio posto di lavoro, per il lavoratore licenziato senza giusta causa. Era una norma di civiltà, di buon senso, che puniva i comportamenti arbitrari, gli illeciti, i soprusi.
Il governo di Matteo Renzi, con una maggioranza parlamentare eletta tramite Porcellum, provvide a sopprimere l’articolo 18 nell’o ttobre 2014, malgrado la gagliarda opposizione del Movimento 5 Stelle. Ora il Movimento è al governo dello Stato e quindi può porre rimedio all’infamia perpetrata dal governo Renzi. E l’occasione è apparsa quando alla Camera è stato presentato un emendamento dl “Decreto Dignità” che stabiliva il ripristino dell’articolo 18. Cosa ha fatto il Movimento di Di Maio? Ha votato contro l’emendamento, che è stato respinto, e quindi i padroni senza scrupoli possono continuare a licenziare arbitrariamente, senza giustificare il motivo. Ripristinare l’articolo 18 dello Statuto è un obbligo morale, oltre che politico. Le conseguenze del mancato ripristino sono di ordine morale e politico: 1) i lavoratori perderanno la fiducia largamente accordata al Movimento 5 Stelle 2) Il Cinque Stelle, abbandonando la difesa dei diritti dei lavoratori, hanno firmato il proprio suicidio elettorale.
Povertà, natalità e lavoro: dicono solo ciò che fa comodo
Una volta ci dicevano che la povertà derivava dal fatto che le famiglie erano troppo numerose, che i Paesi come India e Cina avevano troppa popolazione. Adesso ci dicono che la povertà ci minaccia perché la popolazione italiana diminuisce. Ogni giorno muoiono 1721 e nascono 1325 (leggo su un giornale comunista) persone.
Ci dicono che ci sono pochi lavoratori i quali non riescono a pagare i troppi pensionati, eppure ci sono tanti disoccupati. Non ci dicono, però, che la produttività del lavoro in seguito alla innovazione tecnolo- HO APPRESO dalla stampa dell’arresto in Spagna degli undici writers che hanno imbrattato alcuni treni anche qui a Milano. Pur confessando di non riuscire a comprendere come questa possa essere considerata arte, parlando con mio figlio, convinto sostenitore della Street Art, mi è sorto il dubbio di essere io nel torto e in tutta sincerità vorrei riuscire a capire se esistano, e quali siano, i parametri per capire dove finisce l’arte e dove inizia il vandalismo. CARO LORDI, sarà il tempo a dirci cosa ci accorderemo a considerare “arte”, ma già oggi nessun manuale può trascurare l’opera di Banksy, o in Italia quella di Blu.
Per ora a deciderlo, caso per caso, sono il mercato dell’arte e i tribunali: nell’ampia letteratura le consiglio il bel libro di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, “Graffiti. Arte e ordine pubblico”, il Mulino 2016.
Ci sono cittadini che, in forza del “terribile diritto” (la proprietà privata), staccano le immagini dai loro muri per venderle, scontrandosi con la legge sul diritto d’autore, che protegge “le opere dell’ingegno... qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”, dunque anche quelle illegali. E ce ne sono altri che invece le cancellano, sporgendo denuncia. E le sentenze, vista la quantità di interessi in gioco, spesso divergono. Personalmente, credo che siano la speculazione edilizia, la corruzione della politica e la divisione delle città in ghetti socialmente omogenei a minacciare il cosiddetto “decoro urbano”, che la tradizione italiana gica in questi ultimi 30 anni è aumentata di 5/10 volte a seconda dei vari settori, per cui oggi un lavoratore può “ma ntener e” anche due terzi di pensionati.
Ovvio che se si produce più ricchezza con meno lavoratori bisognerà ripensare il sistema dei contributi pensionistici. Perché l’importante è la ricchezza che si produce, non il numero dei lavoratori che la producono.
Paventare la povertà perché la popolazione diminuisce è una fake news. Poi c’è il problema del lavoro e del mercato del lavoro che è cam- identifica con la manifestazione della giustizia sociale. Per intenderci: quei treni sono “indecorosi” per le condizioni in cui fanno viaggiare i pendolari e talvolta per il razzismo dei loro capotreni, non certo per i graffiti che li colorano. Quanto ai muri, spesso abbandonati e osceni, a me paiono assai più “indecorosi” gli immensi cartelloni pubblicitari che privatizzano lo spazio pubblico operando una lobotomia collettiva attraverso la creazione di bisogni inesistenti. “Legale” e “giusto” non sempre, evidentemente, coincidono. biato, dicono tutti. E siccome il mercato del lavoro è cambiato i lavoratori proletari devono essere precari per tutta la loro vita lavorativa, con la scusa che anche gli imprenditori lo sono.
Non sanno i “tutti” che il mercato del lavoro è cambiato, ma non perché ci è caduto sopra dallo spazio un gigantesco meteorite.
È cambiato, e cambia, a seconda di chi vince la lotta di classe tra i lavoratori proletari e imprenditori capitalisti.
Se vincono gli imprenditori, cosa che è avvenuta negli ultimi 30 anni, dopo la sconfitta del comunismo in Urss e la scomparsa del Pci, il mercato cambia a scapito dei lavoratori proletari, di qui i bassi salari e la precarietà. Se vincono i lavoratori cambia a scapito degli imprenditori degli imprenditori capitalisti. Poi certo la tecnologia cambia il lavoro, e il mercato del lavoro, a prescindere.
Ma anche in questo caso la tecnologia, a seconda di chi vince la lotta di classe, può andare a vantaggio degli imprenditori o dei lavoratori di tutta l’umanità.
La storia la fanno gli uomini e le Ho 85 anni e il caporalato, da che mi ricordi, ha sempre spadroneggiato in tutta Italia: nessun governo è mai riuscito a debellarlo e non ha voluto trovare chi e cosa lo provoca. Più o meno facciamo quasi tutti parte del caporalato. Incolpare gente di situazioni miserabili create da altri, sarebbe come dare la colpa ai kapò ebrei della morte di milioni di fratelli che loro accompagnavano alle docce letali, o come darla ai padri, alle madri, ai fratelli, che nel mezzo della seconda guerra mondiale si chiedevano perché si trovassero a battersi uno contro l’altro.
Oggi sono il negoziante, l’artigiano, il datore di lavoro che tartassati per sopravvivere pagano in nero mini stipendi negando ai lavoratori i diritti contributivi mentre è facile parlare di caporalato per chi ci mette in queste situazioni e con lauti stipendi trova tempo per castelli in aria col denaro che serve altrove, piuttosto che trovare la soluzione giusta e capire che innanzitutto è necessaria la parità dei diritti per combattere il caporalato che, se poi ancora esisterà, troverà la soluzione sempre scritta sul codice penale.