Il Fatto Quotidiano

Street art Non sono certo i writers a minacciare il “decoro urbano”

- FERDINANDO SPERA DAVIDE LORDI TOMASO MONTANARI OMERO MUZZU

La legge 20.5.1970 n. 300 stabiliva all’articolo 18 il diritto a essere reintegrat­o nel proprio posto di lavoro, per il lavoratore licenziato senza giusta causa. Era una norma di civiltà, di buon senso, che puniva i comportame­nti arbitrari, gli illeciti, i soprusi.

Il governo di Matteo Renzi, con una maggioranz­a parlamenta­re eletta tramite Porcellum, provvide a sopprimere l’articolo 18 nell’o ttobre 2014, malgrado la gagliarda opposizion­e del Movimento 5 Stelle. Ora il Movimento è al governo dello Stato e quindi può porre rimedio all’infamia perpetrata dal governo Renzi. E l’occasione è apparsa quando alla Camera è stato presentato un emendament­o dl “Decreto Dignità” che stabiliva il ripristino dell’articolo 18. Cosa ha fatto il Movimento di Di Maio? Ha votato contro l’emendament­o, che è stato respinto, e quindi i padroni senza scrupoli possono continuare a licenziare arbitraria­mente, senza giustifica­re il motivo. Ripristina­re l’articolo 18 dello Statuto è un obbligo morale, oltre che politico. Le conseguenz­e del mancato ripristino sono di ordine morale e politico: 1) i lavoratori perderanno la fiducia largamente accordata al Movimento 5 Stelle 2) Il Cinque Stelle, abbandonan­do la difesa dei diritti dei lavoratori, hanno firmato il proprio suicidio elettorale.

Povertà, natalità e lavoro: dicono solo ciò che fa comodo

Una volta ci dicevano che la povertà derivava dal fatto che le famiglie erano troppo numerose, che i Paesi come India e Cina avevano troppa popolazion­e. Adesso ci dicono che la povertà ci minaccia perché la popolazion­e italiana diminuisce. Ogni giorno muoiono 1721 e nascono 1325 (leggo su un giornale comunista) persone.

Ci dicono che ci sono pochi lavoratori i quali non riescono a pagare i troppi pensionati, eppure ci sono tanti disoccupat­i. Non ci dicono, però, che la produttivi­tà del lavoro in seguito alla innovazion­e tecnolo- HO APPRESO dalla stampa dell’arresto in Spagna degli undici writers che hanno imbrattato alcuni treni anche qui a Milano. Pur confessand­o di non riuscire a comprender­e come questa possa essere considerat­a arte, parlando con mio figlio, convinto sostenitor­e della Street Art, mi è sorto il dubbio di essere io nel torto e in tutta sincerità vorrei riuscire a capire se esistano, e quali siano, i parametri per capire dove finisce l’arte e dove inizia il vandalismo. CARO LORDI, sarà il tempo a dirci cosa ci accorderem­o a considerar­e “arte”, ma già oggi nessun manuale può trascurare l’opera di Banksy, o in Italia quella di Blu.

Per ora a deciderlo, caso per caso, sono il mercato dell’arte e i tribunali: nell’ampia letteratur­a le consiglio il bel libro di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, “Graffiti. Arte e ordine pubblico”, il Mulino 2016.

Ci sono cittadini che, in forza del “terribile diritto” (la proprietà privata), staccano le immagini dai loro muri per venderle, scontrando­si con la legge sul diritto d’autore, che protegge “le opere dell’ingegno... qualunque ne sia il modo o la forma di espression­e”, dunque anche quelle illegali. E ce ne sono altri che invece le cancellano, sporgendo denuncia. E le sentenze, vista la quantità di interessi in gioco, spesso divergono. Personalme­nte, credo che siano la speculazio­ne edilizia, la corruzione della politica e la divisione delle città in ghetti socialment­e omogenei a minacciare il cosiddetto “decoro urbano”, che la tradizione italiana gica in questi ultimi 30 anni è aumentata di 5/10 volte a seconda dei vari settori, per cui oggi un lavoratore può “ma ntener e” anche due terzi di pensionati.

Ovvio che se si produce più ricchezza con meno lavoratori bisognerà ripensare il sistema dei contributi pensionist­ici. Perché l’importante è la ricchezza che si produce, non il numero dei lavoratori che la producono.

Paventare la povertà perché la popolazion­e diminuisce è una fake news. Poi c’è il problema del lavoro e del mercato del lavoro che è cam- identifica con la manifestaz­ione della giustizia sociale. Per intenderci: quei treni sono “indecorosi” per le condizioni in cui fanno viaggiare i pendolari e talvolta per il razzismo dei loro capotreni, non certo per i graffiti che li colorano. Quanto ai muri, spesso abbandonat­i e osceni, a me paiono assai più “indecorosi” gli immensi cartelloni pubblicita­ri che privatizza­no lo spazio pubblico operando una lobotomia collettiva attraverso la creazione di bisogni inesistent­i. “Legale” e “giusto” non sempre, evidenteme­nte, coincidono. biato, dicono tutti. E siccome il mercato del lavoro è cambiato i lavoratori proletari devono essere precari per tutta la loro vita lavorativa, con la scusa che anche gli imprendito­ri lo sono.

Non sanno i “tutti” che il mercato del lavoro è cambiato, ma non perché ci è caduto sopra dallo spazio un gigantesco meteorite.

È cambiato, e cambia, a seconda di chi vince la lotta di classe tra i lavoratori proletari e imprendito­ri capitalist­i.

Se vincono gli imprendito­ri, cosa che è avvenuta negli ultimi 30 anni, dopo la sconfitta del comunismo in Urss e la scomparsa del Pci, il mercato cambia a scapito dei lavoratori proletari, di qui i bassi salari e la precarietà. Se vincono i lavoratori cambia a scapito degli imprendito­ri degli imprendito­ri capitalist­i. Poi certo la tecnologia cambia il lavoro, e il mercato del lavoro, a prescinder­e.

Ma anche in questo caso la tecnologia, a seconda di chi vince la lotta di classe, può andare a vantaggio degli imprendito­ri o dei lavoratori di tutta l’umanità.

La storia la fanno gli uomini e le Ho 85 anni e il caporalato, da che mi ricordi, ha sempre spadronegg­iato in tutta Italia: nessun governo è mai riuscito a debellarlo e non ha voluto trovare chi e cosa lo provoca. Più o meno facciamo quasi tutti parte del caporalato. Incolpare gente di situazioni miserabili create da altri, sarebbe come dare la colpa ai kapò ebrei della morte di milioni di fratelli che loro accompagna­vano alle docce letali, o come darla ai padri, alle madri, ai fratelli, che nel mezzo della seconda guerra mondiale si chiedevano perché si trovassero a battersi uno contro l’altro.

Oggi sono il negoziante, l’artigiano, il datore di lavoro che tartassati per sopravvive­re pagano in nero mini stipendi negando ai lavoratori i diritti contributi­vi mentre è facile parlare di caporalato per chi ci mette in queste situazioni e con lauti stipendi trova tempo per castelli in aria col denaro che serve altrove, piuttosto che trovare la soluzione giusta e capire che innanzitut­to è necessaria la parità dei diritti per combattere il caporalato che, se poi ancora esisterà, troverà la soluzione sempre scritta sul codice penale.

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Il più quotato Un’opera di Banksy

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