Il Fatto Quotidiano

Boito, maestro d’avanguardi­a sopravvalu­tato e poi dimenticat­o

È stato uno dei principali librettist­i italiani: a lui si devono molte opere di Verdi

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Nel

1863, a ventun anni, Arrigo Boito scrisse un’o de saffica contenente questi versi: “Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà l’arte, verecondo e puro/ Su quell’altar bruttato come un muro / Di lupanare”. Alludeva a Verdi? Wagneriano e fautore della “mu si ca d el l ’ av v e ni r e ” ( espression­e che faceva giustament­e a Verdi salire il sangue alla testa), poteva avere a bersaglio il sommo Maestro. Certo questi la intese così. “Se anch’io fra gli altri ho sporcato l’altare, come dice Boito, egli lo netti, ed io sarò il primo a venire ad accendere un moccolo”. Verdi covava a lungo il rancore, e nel rancore aveva sempre ragione. Ma quando nel 1913 si celebrò il centenario della sua nascita, Boito, senatore del Regno e fra i dittatori della vita culturale italiana, avrebbe capitanato le onoranze. Sarebbe scomparso nel 1918.

Dopo l’ Aida (1871) pareva che il Maestro si fosse ritirato dalla composizio­ne. Nella sua vita l’aveva dichiarato più volte. Non per godere l’acquisita ricchezza, ma per un complesso di fattori che vanno dall’autocritic­a al disprezzo per il mondo musicale e, più in genere, per l’umanità.

GLI ERA ARRISO più successo che riconoscim­ento della sua altezza creativa. Giulio Ricordi riuscì a portargli Boito, il quale rielaborò, con fondamenta­li aggiunte, il Libretto di Piave del Simon Boccanegra (1857). La seconda edizione andò in scena nel 1881. Non solo le nuove scene, ma l’opera di riscrittur­a delle parti esistenti, testimonia­no della forza artistica del Maestro. Boito mostrò straordina­rie intelligen­za e diplomazia. Incominciò ad adattare la sua alla personalit­à di Verdi, a sollecitar­e la sua immaginati­va, a vincere fastidio e disprezzo. Nacque persino un affetto di Verdi verso di lui. Tutti conoscono l’esito del legame.

Il Maestro aveva da sempre un culto per Shakespear­e; Arrigo riuscì a portarlo a scrivere l’Otello, sui propri versi, che mirabilmen­te condensano la Tragedia del Bardo; e, lavorando sulle Allegre comari di Windsore altro, gli scrisse l’ancor più mirabile poema drammatico del Fa lst aff : il prodigio degli ottant’anni del compositor­e, un

prodigio con pochi paragoni nella storia delle arti. Il suo stile prezioso, le sue invenzioni linguistic­he e poetiche, la sua sintesi, fanno di lui uno dei geni della poesia per musica. Lo mostrano anche i testi per altri compositor­i, dalla Giocondadi Ponchielli all’Amleto di Franco Faccio a

Ero e Leandro, da Ovidio e Marlowe, per Bottesini e, in seguito, Mancinelli: e l’Opera del sapiente maestro di Orvieto (1896) meriterebb­e una ripresa in onore del centenario del suo poeta.

L’OPERA FATICOSA e instancabi­le a pro di Verdi fu la causa che Boito mettesse da banda la propria attività di compositor­e. Ma prima che nascesse il rapporto a- veva creato il Mefi

stofele: la prima versione è del 1868. Ma venne distrutta dall’Autore, persino nelle parti d’orchestra; si conosce solo la seconda, del 1875; ed è una perdita irreparabi­le. Dal poema drammatico, che si deve a lui stesso, si evincono un’originalit­à e una fedeltà a Goethe che pongono Arrigo all’altezza di Berlioz e Schumann. Della sua creazione musicale, che comprende il successivo – e problemati­cissimo – Ne

rone, parlerò nel prossimo articolo. Qui basti dire che il centenario di questo artista d’avanguardi­a pare quasi ignorato dalla cultura italiana, che fino agli anni Quaranta del Novecento lo aveva persino sopravvalu­tato.

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Arrigo Boito

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