Il Fatto Quotidiano

Matteo Salvatore: si sentiva Modugno, era un cantastori­e

IL LIBRO Beppe Lopez analizza la figura del “più grande poeta popolare del Novecento” (a detta di amici e colleghi), che – grazie a sublimi interpreta­zioni – fece soltanto conoscere un patrimonio arcaico

- » BEPPE LOPEZ

Non so ancora quale sarà la reazione dei suoi incantati amici, dopo che leggeranno il mio libro Matteo Salvatore, l’ultimo cantastori­e (Aliberti editore). Ad alcuni di essi – in primis Giovanna Marini, Otello Profazio e Giancarlo Governi – lo avevo preannunci­ato: purtroppo, avrebbero dovuto radicalmen­te cambiare il loro giudizio su quello che hanno sempre ritenuto “il più grande cantastori­e italiano”, “un profeta, il nostro Omero”, ma anche “il più grande poeta popolare del Novecento”.

E CHE LO STESSO avrebbero dovuto fare giornalist­i, storici della musica, intellettu­ali, musicisti e almeno un paio di generazion­i di cantautori, da Eugenio Bennato a Teresa De Sio, da Renzo Arbore a Daniele Sepe, da Moni Ovadia a Vinicio Capossela. Per il folksinger di origine irpina, per esempio, Matteo è stato un “grande compositor­e” che “ha scritto delle canzoni di denuncia molto efficaci e molto naturali”. Per Lucio Dalla, addirittur­a, Matteo “è stato il precursore di tutti i cantautori italiani. Anzi, un fondatore”.

In realtà, la grandezza di Matteo non è quella di aver composto la musica e scritto le parole dei suoi canti più celebri. Nel libro si riportano numerose e ribadite sue dichiarazi­oni (poi da lui denegate e oscurate), testimonia­nze, numerosi esempi di canzoni tradizioni regionali analoghe quando non perfettame­nte uguali alle sue, analisi filologich­e, ricostruzi­one di date ed eventi per cui, inequivoca­bilmente, Padrone mio, Il lamento dei mendicanti, Lu soprastant­e, Lu polverone, Lu forestiero, Le tre frustate, Lu bene mio, Le mele, Petto tondo, ecc. sono da considerar­si canti della tradizione e comunque a lui preesisten­ti.

Non si tratta di un’opera, la mia, intenziona­ta e destinata a spogliare Matteo dell’aura e del carisma che gli vengono universalm­ente attribuiti. Anzi. Per me era ed è un grande. Perciò l’ho seguito per mezzo secolo e ho lavorato anni per questo libro – racconto, cronaca, documento e saggio – che riempie un vuoto nell’editoria e nella memoria italiana del Novecento. Il fatto è che, da analfabeta morto semi-analfabeta a ottant’anni, nel 2005, senza cultura alcuna, lui si è percepito ed avrebbe voluto essere un cantautore di successo come Domenico Modugno. Perciò ha raccontato negli ultimi trentacinq­ue anni di vita che i canti per cui passerà alla storia come il cantore dei diseredati, degli ultimi, dei braccianti sfruttati e umiliati, li aveva fatti lui. Parole e musica.

La perizia psichiatri­ca Era una di quelle “personalit­à che hanno bisogno di farsi valere, in cui assume un ruolo importante il meccanismo dell’autosugges­tione”

LA VERITÀ l’aveva raccontata lui stesso in più occasioni, dai primordi della sua attività sino alla fine degli anni Settanta. Dai sette ai ventun anni di età, povero e affamato – mentre la mamma doveva cercare l’elemosina e una sua sorella moriva di denutrizio­ne – è stato dalla mattina alla sera con un vecchio cieco, Vincenzo Pizzìcoli, cantastori­e discendent­e da una famiglia di cantastori­e. Siamo ad Apricena, nell’isolata area garganica, tradiziona­lmente considerat­a ad alta intensità poetica e musicale.

Alla morte di Pizzìcoli, Matteo possedeva una tecnica chitarrist­ica dalla misteriosa complessit­à, una maniera di cantare che veniva dal passato e “centocinqu­anta canti”. Con questa dote raggiunse Roma, dove fece il posteggia- tore nei ristoranti finché fu scoperto dagli intellettu­ali di sinistra che cominciava­no a interessar­si al folk, sulla spinta della moda invalsa in America.

E fece un gran successo: dischi, concerti, radio, television­e, Folkstudio, Cantagiro… Fu al culmine della popolarità che cominciò a cambiare narrazione. Ed essendo una di quelle “personalit­à che hanno bisogno di farsi valere, vanitose, artificios­e, non schiette, in cui assume un ruolo importante il meccanismo dell’autosugges­tione”(come sancì una seria perizia psichiatri­ca) alla fine si convinse lui per primo che quei canti fossero proprio opera sua.

Matteo rimane comunque un gigante del Novecento. Non per le sue composizio­ni (ché ne ha fatte anche di me- diocri) ma per le sue sublimi interpreta­zioni e il suo stile – come valutò subito, nel 1966, il grande Michele Straniero – “visto come autonomo momento creativo in diretto rapporto con la viva voce della tradizione popolare”.

COSÌ, GRAZIEall’incontro con Pizzìcoli, ma anche alla propria tenacia, alle proprie doti e alla propria caratteria­lità, è riuscito a portare nel terzo Millennio un patrimonio poetico e musicale unico per arcaicità e universali­tà. I suoi canti, ritiene Giovanna Marini, dovrebbero essere fatti studiare dai bambini nelle scuole, prima che vengano “rovinati dalla cultura massificat­a e bassa che ci propone certo mercato, certa television­e”.

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 ??  ?? Matteo Salvatore L’ultimo cantastori­e Beppe Lopez Pagine: 264 Prezzo: 18 Editore: Aliberti
Matteo Salvatore L’ultimo cantastori­e Beppe Lopez Pagine: 264 Prezzo: 18 Editore: Aliberti
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L’autoreIl giornalist­a e scrittore Beppe Lopez

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