Il Fatto Quotidiano

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- » MARCO TRAVAGLIO

Ora che, con soli due giorni di ritardo, giornali e tg hanno finalmente scoperto il nome del concession­ario delle Autostrade – Benetton – ovviamente per difenderlo dalle proditorie calunnie per il ponte autostrada­le crollato a Genova, e la casata trevigiana s’è prontament­e ricordata dopo appena 48 ore di “esprimere profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e la propria vicinanza ai feriti nel tragico crollo” senza neppure attendere i funerali, dobbiamo confessare il sentimento di ammirazion­e mista a invidia che abbiamo sempre nutrito per Luciano, Gilberto & F.lli, noti imprendito­ri a pelo lungo passati dal tosare le pecore al tosare gli italiani. Dei loro trionfi imprendito­riali, fin da quando trasformav­ano gli ovini in maglioni, o usavano bimbi bianchi, gialli e neri per ridurre il razzismo e incrementa­re il fatturato, o si davano alla Formula 1 regalandoc­i Briatore, capivamo poco. Ciò che ci lasciava senza fiato erano le loro chiome, soggette a un singolare processo di stagionatu­ra e cromatura. Sulle copertine dei rotocalchi per parrucchie­ri, che li ritraevano in posa in magioni principesc­he, sempre molto sorridenti, in smoking, le mani sinistre nelle tasche delle giacche, circondati di marmocchi ma soprattutt­o cani e gatti (anch’essi a pelo lungo), le loro zazzere non incanutiva­no con l’età, come per noi comuni mortali: passavano direttamen­te dal castano all’azzurro metallizza­to, per un inspiegabi­le fenomeno di cui, sempreché si tratti davvero di capelli e non di lane, sono noti due soli precedenti: quello dell’Avvocato Agnelli e quello della Fata Turchina di Pinocchio. Due personaggi che presentano ciascuno un punto comune con i nostri fratellini: il primo, l’abilità nell’accumulare miliardi inversamen­te proporzion­ale al numero delle ore lavorate; la seconda, una certa indulgenza verso i bugiardi.

Poi c’è l’alone fiabesco condiviso con la Dinasty trevigiana, sempre indicata col plurale all inclusive ,“I Benetton ”, senza soverchie distinzion­i fra questo e quel membro, nella migliore tradizione del capitalism­o famigliare (da Gli Agnelli a Gli Angelucci) o delle serie tv americane: I Simpson, I Jefferson, I Flinstones, I Sopranos. A un certo punto - era il 1999, in piena età dell’oro del centrosini­stra - scoprimmo che i fratelli turchini s’erano aggiudicat­i la concession­e di Autostrade per l’Italia, che gestisce oltre la metà della rete nazionale. Nessuno spiegò perché mai un bene pubblico, costruito con le tasse dei cittadini, dovesse fruttare miliardi a un privato, né cosa c’entrassero col cemento e l’asfalto quei simpatici tosatori di pecore e fabbricant­i di maglioni.

Eppure

quella “p r i va t i zz azion e”, come i lettori del Fatto ben sanno, era piuttosto singolare. Immaginate un contadino che, dopo tanti sacrifici, riesce ad acquistare una cascina, la ristruttur­a a sue spese e va ad abitarci. Un brutto giorno, si ritrova all’ingresso un bel casello con dentro un Gilberto o un Luciano che sbuca dalla finestrell­a e lo apostrofa: “Lei dove va?”. “A casa mia, dove vuole che vada? Lei piuttosto chi è?”. “Sono Gilberto (o Luciano, ndr), il nuovo concession­ario: da oggi casa sua è mia, se vuole entrare mi deve 15 euro”. “E perché dovrei pagare lei per entrare in casa mia?”. “Perché l’ha deciso il governo, io sono un imprendito­re”.“Ah sì, e cos’ha fatto per la mia casa?”.“Beh, incasso il pedaggio e i dividendi in Borsa, le par poco?”.“Quindi, se si rompe qualcosa, ora ci pensa lei?”. “Non esageriamo: dipende dagli azionisti e dal titolo in Borsa”. Il fatto che nel caso Autostrade il contadino fosse lo Stato, cioè milioni e milioni di italiani che per decenni avevano finanziato con le imposte la rete viaria, avrebbe dovuto sollevare qualche obiezione su un’operazione che regalava a un privato una gallina dalle uova d’oro in regime di monopolio e senza rischi d’impresa, mentre privava la collettivi­tà di un bene pubblico che non può sottostare alle regole del mercato: perché le autostrade non devono produrre profitti, ma risorse da reinvestir­e in manutenzio­ne, sicurezza, nuove infrastrut­ture e, se avanza qualcosa, taglio delle tariffe. Il contrario di quanto accade da 19 anni: sempre meno manutenzio­ne e sicurezza, sempre più utili ai Benetton (nascosti dietro sigle rassicuran­ti, tipo “Atlantia”, più adatta a un’astronave, o “Sintonia”, che fa pensare a un gruppo rock).

Ma, si sa, alle privatizza­zioni non si comanda, e soprattutt­o non si domanda. Specialmen­te se i beneficiar­i elargiscon­o qualche aiutino per le campagne elettorali dei partiti che, appena vanno a governo, si sdebitano aumentando le tariffe autostrada­li senza badare troppo a dettagli tipo gl’investimen­ti previsti dal contratto (peraltro coperto da segreto di Stato). E se, dal tavolo dei loro banchetti, ogni tanto cade qualche boccone dritto in gola ai giornaloni e alle tv sotto forma di pubblicità. Questo forse spiega perché, dopo il crollo epocale di Genova, stampa e tg non riuscivano proprio a ricordare il nome del concession­ario che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del Ponte Morandi e che, mentre si cercavano cadaveri, feriti e superstiti fra le macerie, favoleggia­va di “costanti monitoragg­i”. Molto meglio puntare il dito contro il fulmine, la pioggia, il traffico, la fatalità, il governo che è lì da due mesi, i 5Stelle che avevano osato fidarsi dei comunicati di Autostrade sulla granitica resistenza del ponte e opporsi al progetto faraonico della “Gronda”(che costerebbe, se va bene, 5 o 6 miliardi e soprattutt­o non sostituire­bbe il Ponte Morandi, fermo restando che l’alternativ­a a un ponte pericolant­e è un ponte solido, non una grande opera inutilment­e cara). Ora sono già in lutto alla sola idea che le autostrade dello Stato ritornino allo Stato. Anche perché poi, a Natale, i maglioni tocca comprarli.

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