I dannati del sotto ponte “Non abbiamo più nulla”
Gli sfollati Nelle case sovrastate dal Ponte Morandi vivevano 640 persone Saranno abbattute. “Di tutta la mia vita è rimasto soltanto un paio di sandali“
“Cosa sente?”. Niente .“Appunto, stasera ho spalancato la finestra e ho sentito soltanto silenzio. Per decenni siamo vissuti con questo rumore sotto casa... vroom, vroom, settantamila volte al giorno. Ma adesso, mi creda, questo silenzio non mi fa dormire. Di notte sogno il ponte che mi è crollato sotto gli occhi, l’urlo di mia figlia. E le rovine che emergevano dalla polvere”.
Francesca Denegri è affacciata dalla finestra della sua casa in via Purgatorio. Si chiama così, salendo ancora c’è via Paradiso. Suona tutto strano oggi in Valpolcevera. Guardi sotto e vedi il Ponte Morandi. Scorgi le auto ancora immobili, qualcuna con i fari accesi, come se il tempo si fosse fermato. Ma se poi ascolti bene senti quel rumore che ti tormenta dentro: i colpi – continui, incessanti – dei martelli pneumatici che scavano nella montagna di detriti. E decine di lampeggianti violetti che illuminano la valle.
Laggiù 400 vigili del fuoco continuano a scavare. Fino a ieri sera sono stati recuperati 38 corpi. Ma il lavoro sarà ancora lungo: “Ci sono dieci, venti dispersi”, sospira il procuratore di Genova, Franco Cozzi. Si cercano intere famiglie. Mentre Genova si prepara ai funerali di Stato per i quali arriverà anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
MORTI LIGURI, pie mon tes i, francesi. Famiglie, bambini, lavoratori. È il lutto di Genova: “Siamo venuti qui per far vedere a nostra figlia, ma non per curiosità. È come se fossimo passati a visitare una persona cara”, raccontano Salvatore e Federica affacciati da corso Belvedere, proprio sopra il ponte.
Da martedì è cambiato tutto. Non soltanto per le 640 persone che hanno dovuto lasciare la casa dove vivevano da decenni. Certo, per loro è davvero dura: “Di tutta la mia vita è rimasto soltanto questo: un paio di sandali, dei pantaloni e una maglietta. Non ho altro. Alle 11,50 abbiamo sentito il boato, non ha idea che rumore terribile, non glielo riesco neanche a raccontare... non c’è nulla di simile. E siamo corsi in strada”, racconta Luisa Franceschi, pensionata. Vive, o forse viveva, in via Fillak. Quel grande vialone – fiancheggiato dagli alberi alti, sovrastato dal ponte – che per i genovesi era uno dei simboli della città operaia, ma non povera.
Luisa sta in strada a guardare la casa a venti metri di di- stanza. Un po’ perché spera di poter rientrare – “Anche solo un attimo” – per recuperare due vestiti, una foto, un ricordo. O magari perché stando lì le pare di poterla proteggere un po’. Accanto ha il figlio che, colmo della sfortuna, viveva nel palazzo accanto. Evacuato anche lui.
Si è formata una folla, centinaia di persone. E anche qui riconosci Genova. Qualcuno mugugna, ma c’è grande compostezza. Il tentativo di mantenere un contegno anche co- sì, vestiti in bermuda e sandali, in mezzo a una strada. È uno spaccato della città: genovesi che vivono a Sampierdarena dalla nascita, ecuadoriani (che qui sono più di quindicimila, la più grande colonia al mondo), poi africani, romeni. Stanno vicini senza tanti problemi, rispondono alle domande dei giornalisti piombati da mezza Europa. Se gli chiedi cosa pensino della revoca della concessione ad Autostrade, delle polemiche, sembrano quasi infastiditi. Per quella riservatezza tutta genovese che detesta proclami, risse e rischi di strumentalizzazioni.
Adesso aspettano e basta. Sperando che qualcuno permetta loro di entrare. Ancora un attimo almeno, in casa: “Intanto lo so, alla fine la abbatteranno. Dovremo andare da un’altra parte”, scrolla le spalle Luca De Luca.
POSSONO entrare soltanto i vigili del fuoco, come il caposquadra Marco Violante. Ma il caschetto che ha in testa non potrebbe nulla se gli piovesse addosso il pilone 10, altre mi- gliaia di tonnellate di cemento. Eppure Marco va lo stesso: “Devo prendere gli animali”, spiega entrando nel condominio. Passano i minuti, il vigile del fuoco, madido di sudore, esce con una gabbietta in mano. Dalla folla senti un urlo. “È il mio gatto!”, una ragazza si avvicina, piange.
Il comune ha allestito un posto di prima accoglienza nel centro civico di via Buranello: venti brandine nel campo di basket. Ma pochi l’hanno usato. Sono stati trovati gli alberghi. E molti sono stati ospitati da parenti e amici. Anche questa è Genova, schiva e solidale. Ma tutti lo sanno: è soltanto l’inizio. Come spiega il sottosegretario alle Infrasttrutture, il genovese Edoardo Rixi (Lega): “Bisogna cominciare subito. Pensare alle persone, poi alle strade, ai trasporti. A salvare il porto perché il ponte è crollato sulla linea ferroviaria che porta le merci in pianura Padana”. Questi, per Genova, sono soltanto i primi di migliaia di giorni.
Si continua a scavare 38 i corpi identificati, ma – secondo i pm – mancano alla conta tra le 10 e le 20 persone