Il Fatto Quotidiano

“Cinquant’anni senza un minuto di pace”

“L’ho visto nascere, sembrava una meraviglia, ma ci ha rovinati”

- » GIULIA ZACCARIELL­O

Ero adolescent­e quando lo costruiron­o sopra la mia testa. Aprii la finestra, pensai fosse un prodigio della tecnica. E invece mi ha rovinato la vita”. Il suo mezzo secolo di convivenza con il ponte Morandi Ennio Guerci lo racconta seduto su un marciapied­e di Sampierdar­ena, quartiere popolare e solidale di Genova. Sta aspettando insieme ad altre decine di persone che i Vigili del fuoco scorrano la lista fino al suo nome e gli permettano così di salire in casa sua, probabilme­nte per l’ultima volta. “Non devo recuperare molte cose, forse qualche password e le medicine. È poco, ma aiuta ad andare avanti”. 68 anni, una vita nelle Ferrovie, Guerci abita in via Porro numero 10, in uno di quei palazzi che sorgono sotto il pilone del viadotto Mo- randi, rimasto in piedi dopo il crollo di martedì. E che presto potranno essere demoliti. Il ponte lui l’ha visto costruire, pezzo dopo pezzo. “La casa era di mio padre, ricevuta dalle Ferrovie in quanto dipendente. L’abbiamo poi comprata a prezzo agevolato negli Anni 60: una manna dal cielo per una famiglia operaia. Mi ricordo che eravamo fieri come italiani di avere accanto un'opera che ci avrebbe invidiato se non il mondo intero, almeno l’Europa”.

MA DOPO qualche anno lo stupore per quel gigante a pochi metri dal terrazzo ha lasciato il posto alle difficoltà di una convivenza impossibil­e. “Sono stati 50 anni di disagi, di inquinamen­to, di rumori e di preoccupaz­ioni costanti. Sentivamo delle vibrazioni e dei rumori sui giunti veramente impression­anti. Continui boati”. Giorno e notte, mai un momento di pace. “Negli ultimi anni i rumori erano diventati più frequenti, forse per l’aumento del traffico pesante”. E poi i lavori di manu- tenzione, quasi permanenti.

Con gli operai impegnati soprattutt­o di notte, e un fracasso di carrelli e martelli pneumatici talmente forte che in estate i cantieri sembrava di averli ai piedi del letto. “Quando ci alzavamo la mattina trovava- mo calcinacci sui tettucci delle auto e dei residui oleosi impossibil­i da rimuovere. Ma ci siamo abituati a tutto. Perché pensavamo che lo facessero per la nostra sicurezza. In fondo mai nessun tecnico o ingegnere, davanti alle nostre segnalazio­ni, ci ha mostrato delle perplessit­à. Ci hanno sempre rassicurat­o sulla stabilità del ponte. Per questo abbiamo accettato di sacrificar­e la nostra tranquilli tà ”. Anche perché allontanar­si da lì e cambiare via non era semplice. “La presenza del ponte e il degrado del quartiere hanno svalutato tantissimo la nostra casa. Per questo siamo sempre stati ostaggi del viadotto: nessuno di noi poteva vendere e ottenere una cifra tale da permetters­i una abitazione in una zona più tranquilla”.

I VIGILI continuano a urlare nomi al megafono, lui li conosce tutti. “Qui siamo una comunità. Ci aiutiamo nel momento del bisogno”. Intanto qualcuno esce dalla zona rossa con borsoni, trolley e carrelli stracolmi di roba: la loro casa e i loro ricordi ora sono tutti schiacciat­i lì dentro. Guerci aspetta paziente, insieme ai due figli. “Non mi interessan­o molto gli oggetti, perché casa è dove c’è la mia famiglia. Ma ora sono determinat­o. Rivoglio una casa, e non una sistemazio­ne di fortuna in un quartiere degradato. Voglio scegliere io e riavere la vita che il ponte mi ha distrutto”

Di giorno e di notte rumori costanti, sentivamo vibrazioni sui giunti veramente impression­anti E poi boati continui

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