L’accordo segreto del 2007 fa la fortuna di Autostrade
Poche settimane fa, il 29 luglio, l’associazione Vittime della strada A16 - Uniti per la vita ha posato una corona di fiori ai piedi di un cavalcavia nei pressi di Monteforte (Avellino). È lì che, lo stesso giorno del 2013, è avvenuta la strage del viadotto Acqualonga: un pullman trasportava fedeli di Padre Pio su una tratta gestita da Autostrade per l’Italia, concessionaria che fa capo alla famiglia Benetton, quando ha iniziato a perdere pezzi e si è schiantato contro un guardrail. La barriera non ha retto l’urto e 40 passeggeri su 49 sono morti nell’incidente stradale più grave della storia del nostro Paese.
A CINQUE ANNI di distanza da quella tragedia, il processo di primo grado è quasi terminato e si attende la sentenza prima di Natale 2018. Avremo un primo verdetto sulle responsabilità: quella strage è accaduta solo per colpa di chi ha permesso la circolazione di un pullman così mal ridotto o c’è stato anche un problema di cattiva manutenzione autostradale? Tra gli imputati figurano due funzionari della Motorizzazione di Napoli, per aver fornito carte false dando il via libera alla circolazione del veicolo pur in pessime condizioni. Ma, soprattutto, è imputata buona parte della dirigenza di Autostrade per l’Italia. A partire dall’amministratore delegato Giovanni Castellucci, più tanti altri: il direttore generale Riccardo Mollo e altri dieci funzionari e dirigenti della concessionaria ovvero Michele Renzi, Paolo Berti, Nicola Spadavecchia, Bruno Gerardi, Michele Maietta, Gianluca De Franceschi, Gianni Marrone, Massimo Fornaci, Marco Perna e Antonio Sorrentino.
L’accusa mossa dal procuratore Rosario Cantelmo, con i sostituti Cecilia Annecchini e Armando Del Bene, è omicidio colposo plurimo. Bisogna capire, in pratica, se il cattivo stato di manutenzione del guardrail non sia da ascrivere alla concessionaria e che questa negligenza non abbia in qualche modo contribuito al tragico epilogo. Per i tecnici incaricati dalla Procura, infatti, il degrado dei tirafondi (i cavi d’acciaio che tengono fisse le barriere) è tra le cause della caduta del pullman. Una migliore manutenzione, insomma, avrebbe probabilmente permesso di reggere l’urto. Autostrade per l’Italia, pur avendo risarcito le vittime, si è sempre difesa sostenendo che “la responsabilità del mantenimento degli standard di sicurezza è attribuita ai responsabili delle strutture territoriali” e che comunque “le spese annue per il mantenimento dell’infrastruttura
Lsono in linea con gli impegni del contratto di concessione”. La verità processuale sarà stabilita il 21 dicembre, dopo nuove perizie tecniche.
A prescindere dall’e s it o , sembra già evidente come negli scorsi anni i ricavi realizzati da Autostrade per l’Italia, soprattutto grazie ai pedaggi, a Benetton, il marchio storico del gruppo è in crisi da anni, ha perso 280 milioni dal 2012 e ora l’anziano patriarca Luciano, a 83 anni, è tornato sulla tolda di comando per invertire il trend. Ma le perdite del marchio dei maglioni fanno solo il solletico al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade: più che una società di servizi che opera con una concessione ultradecennale dello Stato, un paradiso finanziario del guadagno facile. Un business quello auto- stradale ricco, ricchissimo e senza rischi. Pedaggi garantiti dalle tariffe su di un monopolio di fatto. I Benetton, con la privatizzazione di Autostrade, hanno trovato ormai da vent’anni il loro affare del secolo. Basta guardare i numeri della società Autostrade per capire quanta ricchezza produce ogni anno la gestione di 3000 chilometri di strada, la metà dell’intera rete autostradale italiana. Solo nel 2017 Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi di cui 3,6 miliardi solo sui pedaggi. Ma è il livello della marginalità industriale che è da record. Tolti i costi, infatti il margine lor- do si è attestato l’anno scorso a 2,45 miliardi. Ogni 100 euro di ricavi, 62 euro è la profittabilità industriale.
NESSUN BUSINESS ha redditività tipica così elevata. Certo, poi si pagano gli oneri di concessione che però sono solo di 454 milioni, e gli ammortamenti. Togli le tasse e si scopre che Autostrade fa utili netti per quasi un miliardo. Ogni 100 euro di ricavi, quasi 25 euro sono i profitti netti che Atlantia, la holding finanziaria di famiglia che ha in concessione anche gli aeroporti di Roma, si porta a casa. Un vero Bengodi per la famiglia veneta. Che forte della ricchezza prodotta in patria si è spinta allo shopping internazionale.
Pochi mesi fa Atlantia ha trovato l’accordo con la Acs del madrilista Florentino Perez e la sua si siano trasformati più in dividendi per la controllante Atlantia che in investimenti per la sicurezza. Lo dicono gli stessi bilanci: nel quinquennio 2013-2017 le spese di manutenzione sono state pari a 2,1 miliardi a fronte di 3,75 miliardi (il 93 per cento degli utili) di cedole staccate per l’azionista.
LA RAGIONE di tutta questa redditività va ricercata anche nella convenzione firmata a ottobre 2007 tra Anas e Autostrade per l’Italia, come hanno rivelato sul Fatto Quotidiano Giorgio Meletti ed Enrico Fierro già a settembre
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Il processo contro i capi della società ha svelato il patto che fa macinare utili
controllata tedesca Hochtief per papparsi la spagnola Abertis su cui Atlantia da sola aveva lanciato nel maggio scorso un’Opa da 16 miliardi sul 100% del concorrente iberico. Mossa che aveva fatto scatenare la controffensiva spagnola. Ora c’è un accordo a tre. Hochtief lancerà l’Opa in contanti su Abertis e a monte verrà costituita una holding dove Atlantia avrà il 50% del capitale più un’azione. Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Con un evidente risparmio di risorse. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti. In primis Autostrade che gronda utili e che permette di giocarsi l’espansione estera. Con ricavi certi e crescenti nel tempo (con le tariffe che superano costantemente il
United colors
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