Il Fatto Quotidiano

L’antimafia di Rita Borsellino che non urlava in television­e

Una testimone civile La sua battaglia condotta con sguardo dolce ma fermo. La sfida a Cuffaro e l’occasione persa per un Paese diverso

- » NANDO DALLA CHIESA

È morta mercoledì a Palermo Rita Borsellino, sorella di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia nel 1992.

In poco tempo diventò per molti lo sguardo dolce dell ’ antimafia. Bastò il suo affacciars­i nel movimento. Lo aveva spiegato a tutti, con naturale modestia, che di quel che era successo fino al 1992 si era occupata poco, che la mattanza palermitan­a non l’aveva trascinata a convegni e fiaccolate. Poi era successo quello che tutti sappiamo. I due terribili boati: il 23 di maggio e il 19 di luglio. L’apocalisse e la disperazio­ne. E il famoso “è finito tutto” soffiato davanti alle telecamere da Antonino Caponnetto, il padre putativo dei giudici dioscuri, che da lì avrebbe iniziato il proprio apostolato civile in giro per l’Italia. Ma se Caponnetto iniziò, Rita addirittur­a nacque. “Sono nata una seconda volta il 19 luglio”, disse. Ed era vero.

LA PACATA farmacista che nulla sapeva di movimenti ne divenne una leader naturale. Senza urlare, senza lanciare anatemi, con la calma e il buon senso e la profondità di sentimenti che non portano in tivù. Sarebbe potuta essere un simbolo morale dell’Italia intera, giorno per giorno. Il cielo sa se ne avremmo avuto bisogno. Lo fu per il movimento antimafia, che pure dell’Italia rap- presenta alfine il meglio. Lo fu anche per il Paese, ma solo nei giorni comandati: cerimonie e commemoraz­ioni. Non lo fu per la politica, che la candidò ma non ne trasse e tanto meno ne cercò insegnamen­ti. Nemmeno quando, qualche anno fa, riuscì con Sonia Alfano a dare al parlamento europeo l’unica commission­e antimafia della sua storia. Andò subito tra i giovanissi­mi, consapevol­e del ruolo che le era toccato. Non aveva paura nemmeno della scuola materna, l’ultimo luogo consigliab­ile a chi parli di morti e di mafia. Lei però vi raccontava la favola di “Paolo e Giovanni” e i bambini ascoltavan­o rapiti. Alla fine di un intervento in una scuola elementare un bambino le chiese se poteva chiamare “zio Paolo” il giudice suo fratello. “Gli voglio bene”, spiegò. Nella Sicilia dove la mafia aveva schiacciat­o le mogli e le madri e le fidanzate e le figlie delle vittime, dove la donna era giudicata dignitosa se silenziosa, Rita lanciò la sfida più alta: essere lei a governare l’isola più bella e insanguina­ta. Fu una gara meraviglio­sa, con migliaia di giovani che si misero al servizio di “Rita”, anche tornando a casa dalle università del Nord. Vinse a Palermo, non nelle altre provincie. La Sicilia per la quale si era immolato in quel modo suo fratello le preferì Totò Cuffaro, destinato a finire in carcere per favoreggia­mento di mafiosi. Sì, perché quella su cui “Rita” ha camminato con orgoglio è strada aspra e difficile che niente perdona. Strada proterva, che appena accarezzi la speranza ti scaraventa addosso un fiato greve che arriva da lontano.

IO RICORDO ancora quella impresa come il traguardo più alto raggiunto dalle donne ribelli nell’intera storia del sud. La malattia l’ha fatta soffrire, talora ne ha anche offeso il sorriso bellissimo. Ma ha resistito come una giovane leonessa, era rinata o no nel 1992? L’ho vista l’ultima volta a gennaio, alla inaugurazi­one del Centro studi che Palermo ha dedicato al fratello. La trovai bene, senza carrozzell­a, e mi illusi. In quell’occasione la conobbi nonna affettuosi­ssima delle sue tre splendide e giovani nipoti. Le guardava come fossero un impasto magico di passato e di futuro.. Nel frattempo è arrivata la sentenza sui rapporti Stato-mafia. Ed è emerso nella sua platealità il grande intrigo che aveva depistato indagini e verità. Il viso, in tivù, non è stato più quello che avevamo conosciuto e amato. La voce sì. Tradiva la fierezza rara delle persone senza macchia. Disse più o meno: bisognerà lottare per la verità, e noi ci saremo. Pochi giorni fa. Al futuro. Il futuro non l’ha aspettata. E ora tocca

Nonostante la malattia la sua voce era sempre la stessa Tradiva la fierezza rara delle persone senza macchia

ancor più a tutti noi tirar fuori quella verità dagli abissi del passato. Perché lei seppe raccontarl­a come una favola. Ma sapeva bene che non era stata una favola. La sua grandezza stette proprio in quella capacità suprema di sdoppiamen­to. La dolcezza del racconto pubblico, il senso dell’ingiustizi­a che le bruciava dentro. Grazie Rita.

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Ansa Foto di famiglia Rita Borsellino assieme a Maria Falcone. Dietro Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
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