Il Fatto Quotidiano

La Praga di oggi divisa tra Nato e amore per Putin

Il presidente ceco diserta la cerimonia

- » MICHELA A. G. IACCARINO

La loro bandiera non può fermare l’invasione, ma ai ragazzi non importa: decidono comunque di arrampicar­si sul carro armato sovietico per sventolare il tricolore del loro Paese. Quei giovani cechi rimangono lì immobili da 50 anni nella stessa, celebre foto in bianco e nero. Uno scatto che fece il giro del mondo per raccontare l’agosto di Praga del 1968. Esattament­e 50 anni dopo, i nipoti di quegli uomini che scesero per strada contro le truppe del Patto di Varsavia, hanno messo la memoria della loro Primavera nel Muzeum Komunismu, nel centro della Capitale, fermata della metro Mustek. All’ingresso dell’edificio ci sono tre parole tra un’eno rme stella rossa e la statua di Marx: “sogno, realtà, incub o”. Ma che cosa sia stato quel pezzo di storia i cechi sembrano non averlo ancora deciso. È passato mezzo secolo da quell’agosto a questo, da quei lunghi mesi di rivolta a questi giorni di breve protesta, alternati da lunghi silenzi e fischi. Tra est ed ovest, tra Mosca e Washington, tra ieri e oggi: in biperenne bilico rimane la memoria e l’oblio di Praga.

IERI, 1968. Dopo le dimissioni di Antonin Novotny dalla Presidenza della Repubblica, si rafforzò la nova vlna, la nuova onda ceca, che richiedeva democrazia e libertà al regime socialista. Fu battezzata Primavera. Seguirono mesi di tentativi di liberalizz­azione e riforme nel Paese, ma l’esito di quella stagione fu l’intervento delle truppe del blocco di Mosca. I carri armati sovietici finirono per le strade di Praga, la firma di Aleksander Dubecek, che aveva preso il posto di Novotny, invece finì sul protocollo d’intesa con il Cremlino per “normalizza­re” la situazione politica. Il ’68 praghese fu silenziato dai cingolati. Dubecek, rappresent­ante del “socialismo dal volto umano”, poi fu espulso dal partito e finì i suoi giorni da manovale in un’impresa forestale. Oggi, 50 anni dopo, il premier filoeurope­ista di Praga è un tycoon milionario, fischiato dai giovani praghesi quando si è presentato cinque giorni fa alla commemoraz­ione per le vittime di allora.

Perché dalle porte girevoli da quell’epoca a questa sono passati in molti, ma soprattutt­o il premier stesso. Andrej Babis, slovacco di nascita, 63 anni, il “Berlusconi di Praga” è figlio di un ufficiale della nomenklatu­ra comunista. Diventò membro del partito della falce e martello nel 1980, in seguito informator­e della sua polizia segreta, anche se ha più svolte smentito questa notizia dopo le indagini a suo carico alla corte di Bratislava. “Booh” urlarono ai sovietici i giovani cechi nell’agosto 1968 e “booh” nel 2018 i ragazzi di Praga hanno urlato a lui quest’estate.

Praga oggi rimane una città a due teste: una è quella filo-NATO di Babis, l’altra è quella del presidente filorusso Zeman, alleato fedele di Putin, che ha deciso di sottrarsi del tutto alle commemoraz­ioni dell’inv asione russa. Secondo il suo portavoce, Zeman si è già opposto nel 1968, “quando per le sue critiche ai sovietici perse il lavoro da insegnante universita­rio”. Per riempire la sagoma dell’assenza del presidente del loro Paese, non sapendo bene cosa fare, le tv ce- che hanno deciso di mandare in onda il discorso di commemoraz­ione del suo omologo slovacco, Andrej Kiska.

MUSEI E MEMORIE. Dal Muzeuma Mustek, dopo un paio di minuti sottoterra, si arriva alla metro Staromesto, Città Vecchia. Alla facoltà di Filosofia, il memoriale di Jan Palach - lo studente di 21 anni che per protesta agli invasori decise di cospargers­i di benzina e darsi fuoco nel gennaio 1969 - è coperto da una protezione in legno. Chi vuole lasciargli fiori rossi si rammarica, rinuncia e torna indietro. A ricordare Jan, simbolo della resistenza ai sovietici, ci sono nel parco di fronte due sculture e una poesia su una lapide di bronzo. L’intero edificio dell’Università Carlo IV dove studiava Palach, nella piazza oggi ribattezza­ta in suo onore, è coperto da un enorme telo blu: è in perestroik­a, ricostruzi­one. Intorno vagano visitatori ignari, con cani al guinzaglio e

bastoni da selfie. Poi picnic di visitatori distratti al sole. Ieri erano invasori: oggi i russi sono turisti - decine di migliaia all'anno -, ma soprattutt­o imprendito­ri e, in politica, fraterni alleati di ritorno.

SECONDO L’ULTIMO sondaggio fatto a Mosca, per un terzo dei russi, le truppe del Patto di Varsavia fecero bene ad “intervenir­e” in questa città, ma secondo più della metà “boh”: perché i russi di oggi non sanno nemmeno cosa è successo allora e qui, nel 1968 a Praga.

Dal 1968 al 2018. Da un Jan all’altro: se ieri era Palach, oggi è Kuciak. Migliaia di persone anche in Repubblica Ceca continuano a ricordare il reporter slovacco ammazzato, Jan Kuciak, ucciso sei mesi fa nella sua casa insieme alla fidanzata, perché indagava sulle connession­i della ’ndragheta calabrese e gli esponenti politici corrotti del suo Paese, che fino al 1993, era parte di questo: la Cecoslovac­chia.

Quando il presidente Zeman è tornato a insultare la stampa nazionale, suo bersaglio preferito, il 15 marzo scorso, i giovani cechi di piazza Venceslao hanno invaso le strade urlando “vergogna” e hanno agitato in aria i cellulari. Quei led contro il buio erano contro il loro governo e per la memoria di Jan, che a differenza del primo, Palach, è divenutoma­rtire senza volerlo, ultimo simbolo di quest’epoca nuova. Per lui in Repubblica Ceca in migliaia più volte sono scesi strada, in Slovacchia invece ci sono state le più grandi proteste mai viste dal 1989: marce che hanno portato alle dimissioni del premier slovacco Robert Fico, quello che chiamava i giornalist­i “sporche prostitute” e che ha dominato la scena politica per una decade. Mentre gli slovacchi pianifican­o altre manifestaz­ioni, i cechi silenziosi dai ponti della loro città attentamen­te osservano i fratelli slavi. E chi è venuto qui cinquant’anni dopo a cercare scintille di quella Primavera a Praga, deve andare a Bratislava.

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Ansa e Mi.Ia. Le proteste di ieri e di oggi In basso un pannello del Museo delComunis­mo
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