Addio a McCain e alla destra Usa prima di Trump
IL COMBATTENTE Conservatore indipendente e romantico, negli Usa sconvolti da Trump è diventato il simbolo dei valori tradizionali di quei Repubblicani (e non solo) oggi privi di punti di riferimento
L’America pre-trumpiana era così affettuosamente devota al senatore John McCain, scomparso dopo una battaglia col cancro durata un anno, perché si rispecchiava in lui e, nel farlo, si riconosceva perfettamente. Adesso le cose stanno in modo più complicato, ma ciò non toglie che l’omaggio al vecchio maverick, l’anticonformista (come gli piaceva essere soprannominato), sarà sentito e aprirà la strada a dei “come eravamo” che, in questi tempi politici, disturberanno il traballante presidente in carica (“Tanto morirà lo stesso” lo ha spietatamente liquidato recentemente Kelly Sadler, assistente di Trump). Perché McCain ha incarnato, in mezzo secolo di vita pubblica, l’americano ideale, il modello dell’uomo da sposare, del padre da avere, dell’interprete dello spirito di altruismo ed empatia che oltreoceano, a prescindere dalle appartenenze, è considerato il sentimento fondante della nazione, il valore originale coltivando il quale si è arrivati fin qui.
John McCain era la sintesi di alcune prerogative venerate dalla maggioranza dei connazionali – tanto più se si parla di “Buona Vecchia America” bianca, middle class, volitiva e patriottica - a cominciare dall’inestinguibile slancio a battersi per le “buone cause” (svarioni inclusi. Uno per tutti: la legittimità del vessillo confederato). McCain è stato prima di tutto un combattente, salito alla ribalta con l’etichetta di eroe di guerra, come pilota di un jet abbattuto nel ‘67 durante una missione in Vietnam e quindi costretto a una prigionia di cinque anni, costellata di torture e sofferenze. Rientrato in patria, da subito McCain ha personificato la propria storia, sistemandosi stabilmente a Washington in rappresentanza della sua Arizona e continuando a fare ciò per cui sembrava essere nato: dare battaglia. Peraltro, dimostrandosi alla lunga tutt’altro che un vincente: anche questa una caratteristica percepita emotivamente dagli americani, abituati a convivere con l’ansia da prestazione e coi fantasmi dei possibili fallimenti. Di fatto, molte sfide affrontate da McCain nella sua lunga carriera politica, si sono risolte con un insuccesso: ma agli americani questo piaceva lo stesso, perché va rispettato chi si batte con convinzione e in ogni caso perché pesava di più il candore individualistico col quale il biondo senatore si proiettava nella contesa, che l’effetto conclusivo delle sue battaglie. Così, forse perfino sfidando il cliché o in alcuni casi inseguendo il proprio personaggio, McCain col passare del tempo si è trasformato in un prototipo inossidabile dell’immaginario americano: quello del conservatore indipendente e romantico, il tradizionalista colto e spiritoso, animato dal gusto di sorprendere i prevedibili compagni di partito con le proprie sortite bipartisan e con le sue amicizie pericolose coi progressisti dell’altra sponda. Titolare, soprattutto, di posizioni improntate a un populismo “naturale”, ben diverso da quello strillato degli ultimi tempi, ispirato a un culto del buonsenso e ai principi del buon vicinato, del mutuo soccorso, del reciproco sorvegliarsi, che hanno cresciuto e fatto prosperare l’America suburbana del Novecento. È in questo solco che McCain ha vissuto le due principali spedizioni della sua vita politica, entrambe concluse con un verdetto di onorevole sconfitta. È successo nel 2000, quando fronteggiò George W. Bush nelle primarie repubblicane, venendone battuto con onore al punto da diventare naturale aspirante alla Casa Bianca 2008, salvo venir di nuovo travolto dall’onda montante della novità-Obama. Anche in quella occasione McCain piacque agli americani, per la cavalleria e l’eleganza con cui affrontò l’inatteso contendente, stuzzicandolo ma rispettandolo, e addirittura prendendone le difese di fronte ai connazionali che rabbrividivano all’idea di un nero nelle sacre stanze: “È un uomo dignitoso e un buon cittadino, del quale purtroppo non condivido molti punti di vista su questioni fondamentali” disse durante un dibattito, suscitando un’ammirazione bipartisan che oggi somiglia a un re- perto archeologico di un mondo politico che non esiste più. Eppure, ancora una volta, McCain perse, perché si trovò a indossare contro Obama i panni del “vecchio che avanza”, a cui credette avventatamente di ovviare scegliendo, per il ticket elettorale, non un abilemanovratore politico come Joe Lieberman (che gli avrebbe garantito un buon controllo strategico della campagna), bensì quel fenomeno da baraccone mediatico chiamato Sarah Palin. La maggioranza americana non apprezzò, scelse Obama e costrinse di nuovo McCain ad accettare la sconfitta - per quanto, vista dal nostro presente, quella scelta-Palin sembra meno peregrina che all’epoca, per come tentava di sparigliare le carte della tradizione, puntando su una postpolitica istantanea di cui adesso ci pasciamo giornalmente. Ma, come detto, McCain sapeva perdere e andare avanti. Continuando a combattere per le sue cause, sovente a braccetto con avversari di campo, accomunati a lui dal gusto american-chic per la buona vita: Ted Kennedy e Joe Biden, ad esempio, suoi allegri compari di sigari e cognac, mentre l’inaccettabile per lui aveva le fattezze di quel Donald Trump capace di trasformare in moneta politica la propria guasconeria affaristica. Presto McCain è divenuto il capofila dei repubblicani indisponibili a sottoscrivere l’avvento del deprecabile e rumoroso stile del miliardario palazzinaro: nel 2016 McCain accorda un iniziale, titubante supporto alla candida- tura di Trump, ma allorché emergono le prime indiscrezioni sulle sue bravate sessuali, l’appoggio viene ritirato, per essere sostituito con critiche sempre più roventi. Trump ricambia l’antipatia: “McCain non è un eroe di guerra solo perché è stato fatto prigioniero. Ame piace chi non si fa catturare”. Da quel momento gli scambi tra i due sono diventati torridi, fino all’imbarazzante epilogo: a fronte delle condoglianze formali inviate dal presidente alla famiglia McCain, Trump non è stato invitato ai funerali del Maverick e la Casa Bianca sarà rappresentata dal suo vice Mike Pence.
In sostanza, il lungo addio che la nazione ha consumato con questa leggenda vivente – su di lui sono appena usciti un documentario agiografico Hbo, intitolato “Per chi suona la campana” come il romanzo del suo amato Hemingway e “The restless wave”, volume autobiografico redatto a quattro mani col suo speechwriter Mark Salter – segna un altro passo nella direzione del distacco sentimentale dell’America da un’idea di se stessa per decenni coltivata con cura. Esce di scena il testimone dei valori nazionali, il “believer in the West”, una potente figura letteraria che di colpo sembra appartenere al passato, o a una minoranza o, peggio ancora, ai noiosi fautori della nostalgia canaglia. Lui era quello de “l’onore prima di tutto” e de “il mondo è un bel posto per cui vale la pena di battersi”. Oggi l’atmosfera è quella di un altro pessimismo, di un perenne sospetto, del guardingo egoismo. Tempi che cambiano. A sorpresa però, McCain stavolta potrebbe vincere, proprio congedandosi e, così facendo, storicizzandosi. Ovvero diventando un monumento stabile a qualcosa che non c’è più. E di cui, presto o tardi, da quelle parti si potrebbe cominciare a sentire una grandissima mancanza.