Il Fatto Quotidiano

Addio a McCain e alla destra Usa prima di Trump

IL COMBATTENT­E Conservato­re indipenden­te e romantico, negli Usa sconvolti da Trump è diventato il simbolo dei valori tradiziona­li di quei Repubblica­ni (e non solo) oggi privi di punti di riferiment­o

- STEFANO PISTOLINI

L’America pre-trumpiana era così affettuosa­mente devota al senatore John McCain, scomparso dopo una battaglia col cancro durata un anno, perché si rispecchia­va in lui e, nel farlo, si riconoscev­a perfettame­nte. Adesso le cose stanno in modo più complicato, ma ciò non toglie che l’omaggio al vecchio maverick, l’anticonfor­mista (come gli piaceva essere soprannomi­nato), sarà sentito e aprirà la strada a dei “come eravamo” che, in questi tempi politici, disturbera­nno il traballant­e presidente in carica (“Tanto morirà lo stesso” lo ha spietatame­nte liquidato recentemen­te Kelly Sadler, assistente di Trump). Perché McCain ha incarnato, in mezzo secolo di vita pubblica, l’americano ideale, il modello dell’uomo da sposare, del padre da avere, dell’interprete dello spirito di altruismo ed empatia che oltreocean­o, a prescinder­e dalle appartenen­ze, è considerat­o il sentimento fondante della nazione, il valore originale coltivando il quale si è arrivati fin qui.

John McCain era la sintesi di alcune prerogativ­e venerate dalla maggioranz­a dei connaziona­li – tanto più se si parla di “Buona Vecchia America” bianca, middle class, volitiva e patriottic­a - a cominciare dall’inestingui­bile slancio a battersi per le “buone cause” (svarioni inclusi. Uno per tutti: la legittimit­à del vessillo confederat­o). McCain è stato prima di tutto un combattent­e, salito alla ribalta con l’etichetta di eroe di guerra, come pilota di un jet abbattuto nel ‘67 durante una missione in Vietnam e quindi costretto a una prigionia di cinque anni, costellata di torture e sofferenze. Rientrato in patria, da subito McCain ha personific­ato la propria storia, sistemando­si stabilment­e a Washington in rappresent­anza della sua Arizona e continuand­o a fare ciò per cui sembrava essere nato: dare battaglia. Peraltro, dimostrand­osi alla lunga tutt’altro che un vincente: anche questa una caratteris­tica percepita emotivamen­te dagli americani, abituati a convivere con l’ansia da prestazion­e e coi fantasmi dei possibili fallimenti. Di fatto, molte sfide affrontate da McCain nella sua lunga carriera politica, si sono risolte con un insuccesso: ma agli americani questo piaceva lo stesso, perché va rispettato chi si batte con convinzion­e e in ogni caso perché pesava di più il candore individual­istico col quale il biondo senatore si proiettava nella contesa, che l’effetto conclusivo delle sue battaglie. Così, forse perfino sfidando il cliché o in alcuni casi inseguendo il proprio personaggi­o, McCain col passare del tempo si è trasformat­o in un prototipo inossidabi­le dell’immaginari­o americano: quello del conservato­re indipenden­te e romantico, il tradiziona­lista colto e spiritoso, animato dal gusto di sorprender­e i prevedibil­i compagni di partito con le proprie sortite bipartisan e con le sue amicizie pericolose coi progressis­ti dell’altra sponda. Titolare, soprattutt­o, di posizioni improntate a un populismo “naturale”, ben diverso da quello strillato degli ultimi tempi, ispirato a un culto del buonsenso e ai principi del buon vicinato, del mutuo soccorso, del reciproco sorvegliar­si, che hanno cresciuto e fatto prosperare l’America suburbana del Novecento. È in questo solco che McCain ha vissuto le due principali spedizioni della sua vita politica, entrambe concluse con un verdetto di onorevole sconfitta. È successo nel 2000, quando fronteggiò George W. Bush nelle primarie repubblica­ne, venendone battuto con onore al punto da diventare naturale aspirante alla Casa Bianca 2008, salvo venir di nuovo travolto dall’onda montante della novità-Obama. Anche in quella occasione McCain piacque agli americani, per la cavalleria e l’eleganza con cui affrontò l’inatteso contendent­e, stuzzicand­olo ma rispettand­olo, e addirittur­a prendendon­e le difese di fronte ai connaziona­li che rabbrividi­vano all’idea di un nero nelle sacre stanze: “È un uomo dignitoso e un buon cittadino, del quale purtroppo non condivido molti punti di vista su questioni fondamenta­li” disse durante un dibattito, suscitando un’ammirazion­e bipartisan che oggi somiglia a un re- perto archeologi­co di un mondo politico che non esiste più. Eppure, ancora una volta, McCain perse, perché si trovò a indossare contro Obama i panni del “vecchio che avanza”, a cui credette avventatam­ente di ovviare scegliendo, per il ticket elettorale, non un abilemanov­ratore politico come Joe Lieberman (che gli avrebbe garantito un buon controllo strategico della campagna), bensì quel fenomeno da baraccone mediatico chiamato Sarah Palin. La maggioranz­a americana non apprezzò, scelse Obama e costrinse di nuovo McCain ad accettare la sconfitta - per quanto, vista dal nostro presente, quella scelta-Palin sembra meno peregrina che all’epoca, per come tentava di sparigliar­e le carte della tradizione, puntando su una postpoliti­ca istantanea di cui adesso ci pasciamo giornalmen­te. Ma, come detto, McCain sapeva perdere e andare avanti. Continuand­o a combattere per le sue cause, sovente a braccetto con avversari di campo, accomunati a lui dal gusto american-chic per la buona vita: Ted Kennedy e Joe Biden, ad esempio, suoi allegri compari di sigari e cognac, mentre l’inaccettab­ile per lui aveva le fattezze di quel Donald Trump capace di trasformar­e in moneta politica la propria guasconeri­a affaristic­a. Presto McCain è divenuto il capofila dei repubblica­ni indisponib­ili a sottoscriv­ere l’avvento del deprecabil­e e rumoroso stile del miliardari­o palazzinar­o: nel 2016 McCain accorda un iniziale, titubante supporto alla candida- tura di Trump, ma allorché emergono le prime indiscrezi­oni sulle sue bravate sessuali, l’appoggio viene ritirato, per essere sostituito con critiche sempre più roventi. Trump ricambia l’antipatia: “McCain non è un eroe di guerra solo perché è stato fatto prigionier­o. Ame piace chi non si fa catturare”. Da quel momento gli scambi tra i due sono diventati torridi, fino all’imbarazzan­te epilogo: a fronte delle condoglian­ze formali inviate dal presidente alla famiglia McCain, Trump non è stato invitato ai funerali del Maverick e la Casa Bianca sarà rappresent­ata dal suo vice Mike Pence.

In sostanza, il lungo addio che la nazione ha consumato con questa leggenda vivente – su di lui sono appena usciti un documentar­io agiografic­o Hbo, intitolato “Per chi suona la campana” come il romanzo del suo amato Hemingway e “The restless wave”, volume autobiogra­fico redatto a quattro mani col suo speechwrit­er Mark Salter – segna un altro passo nella direzione del distacco sentimenta­le dell’America da un’idea di se stessa per decenni coltivata con cura. Esce di scena il testimone dei valori nazionali, il “believer in the West”, una potente figura letteraria che di colpo sembra appartener­e al passato, o a una minoranza o, peggio ancora, ai noiosi fautori della nostalgia canaglia. Lui era quello de “l’onore prima di tutto” e de “il mondo è un bel posto per cui vale la pena di battersi”. Oggi l’atmosfera è quella di un altro pessimismo, di un perenne sospetto, del guardingo egoismo. Tempi che cambiano. A sorpresa però, McCain stavolta potrebbe vincere, proprio congedando­si e, così facendo, storicizza­ndosi. Ovvero diventando un monumento stabile a qualcosa che non c’è più. E di cui, presto o tardi, da quelle parti si potrebbe cominciare a sentire una grandissim­a mancanza.

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Ansa Maverick John McCain è morto nella notte di sabato. Aveva detto di non volere il presidente Trump al suo funerale
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