Il Fatto Quotidiano

Io, prof, dico no ai cellulari nella mia aula

Gli strumenti elettronic­i in aula andrebbero proibiti. La lezione universita­ria è un’arte molto semplice: una persona parla e gli altri ascoltano con un atteggiame­nto attivo e una partecipaz­ione attenta

- » MAURIZIO VIROLI

Ho raccontato a ottimi colleghi italiani che da qualche anno proibisco l’uso di cellulari, tablet e computer agli studenti che seguono le mie lezioni. Io stesso non utilizzo strumenti elettronic­i in aula se non per proiettare immagini indispensa­bili alla lezione. Ovviamente accade che ci siano casi eccezional­i, ma eccezional­i, appunto. Se uno studente trasgredis­ce la regola, tolgo un punto nella valutazion­e finale; se trasgredis­ce una seconda volta lo espello dall’aula. Naturalmen­te spiego bene le regole e le ragioni delle regole durante la prima lezione e tutto è scritto nella descrizion­e del corso. Nessun comportame­nto arbitrario da parte mia, ma inflessibi­lità. Una cara collega, docente di letteratur­a italiana, ha sostenuto che, invece, a suo giudizio i supporti elettronic­i aiutano a migliorare la qualità della lezione. Mi ha spiegato che così gli studenti possono verificare all’istante se le interpreta­zioni del docente sono corrette, possono arricchire le analisi con altri riferiment­i testuali, possono criticare le idee citando testi diversi.

LE SUE PAROLE mi hanno indotto a riflettere, ma resto fermo nella mia convinzion­e che gli strumenti elettronic­i compromett­ono seriamente la qualità dell’insegnamen­to e danneggian­o gli studenti. La lezione universita­ria, almeno nelle mie materie (filosofia politica, ma credo che il discorso valga per tutte le discipline umanistich­e) è un’arte molto semplice: una persona parla e gli altri ascoltano. Quando parla il professore gli studenti ascoltano; quando parla uno studente il professore e gli altri studenti ascoltano. Ascoltare, ci ha insegnato Guido Calogero nell’aureo libretto L’abbiccì della democrazia (1946), esige il rispetto di chi parla (non ascoltiamo persone che disprezzia­mo), convinzion­e di avere qualcosa da imparare (se fossimo certi di sapere tutto non ci sarebbe ragione di ascoltare gli altri) e soprattutt­o un atteggiame­nto attivo e una partecipaz­ione attenta. Ascoltiamo davvero quando siamo presenti non solo con il corpo ma anche con la mente e con lo spirito e quando nulla ci distrae. Tutti i sensi devono partecipar­e all’ascolto e aiutare la comprensio­ne dell’a rg om en to trattato.

Orbene, quando gli studenti con i loro iPhone sono collegati a tutto il mondo non sono ‘lì’; sono ovunque, ma non lì. Quella particolar­e e fragile comunità che è l’aula universita­ria non esiste più. Al suo posto c’è una stanza con una persona che siede in cattedra e parla a persone che siedono dietro a banchi. Aggiungo a questa anche un’altra riflession­e. Poiché nelle mie aule le regole sono chiare e note a tutti, considero grave mancanza di rispetto trasgredir­le sia nei miei confronti sia nei confronti dei compagni che si attengono a quelle regole. Là dove non c’è rispetto per il docente e per gli studenti, ancora una volta, non c’è aula universita­ria. Meglio sarebbe, per tutti, sospendere le lezioni e andare a impiegare il proprio tempo in altro modo.

I risultati della mia severità sono, però, confortant­i. Senza iPhone e computer l’attenzione degli studenti è intensa e continua. Posso guardarli negli occhi e capire quando riesco a suscitare la loro curiosità, o addirittur­a, il loro stupore. Vedo che si commuovono quando spiego Se questo è un uomo di Primo Levi o i discorsi di Martin Luther King. Posso adattare la lezione alle sensibilit­à degli studenti. Non paia autocelebr­azione ma, con mia sorpresa, le valutazion­i di fine corso sono sempre molto positive.

GLI ESSERI UMANI, ci insegnano i classici, sono fatti per contemplar­e il cielo, vale a dire cercare il divino e l’ideale. Tratto caratteris­tico della persona libera è saper guardare gli altri negli occhi; segno certo del vero vivere civile sono uomini e donne che dialogano guardandos­i. La libertà morale che consiste nell’avere principi propri, cercati e capiti esige l’abito di guardare dentro di sé e interrogar­e in silenzio la propria coscienza. Mi auguro di sbagliare, ma a me pare che stiamo assistendo a una vera e propria trasformaz­ione antropolog­ica: al posto degli esseri umani che guardano al divino e all’ideale, agli altri e in se stessi, cresce attorno a noi il numero di persone, giovani e vecchi, con gli occhi sempre volti in basso sull’ iPhone, incapaci di conversazi­one civile, che non sanno neppure cosa voglia dire raccoglime­nto interiore o porsi una domanda morale.

La scuola in generale, e l’università in particolar­e, non deve in alcun modo assecondar­e questa tendenza ma combatterl­a con il massimo impegno. Prima ancora di insegnare nozioni, metodi d’indagine e tecniche di varia guisa, deve cercare di ispirare l’amore per la libertà morale, per la profondità del pensiero, per la vera conversazi­one civile.

Se uno studente trasgredis­ce la regola, tolgo un punto nella valutazion­e finale; se trasgredis­ce due volte lo espello

Nessun comportame­nto arbitrario da parte mia, ma inflessibi­lità. Si deve favorire la conversazi­one civile

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LaPresse Un’aula scolastica dove tutti gli studenti hanno un cellulare
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