Il Fatto Quotidiano

Sul massacro Rohingya, l’Onu vuole processo

L’accusa L’Onu vuole un processo per il capo dell’esercito Min Aung Hlaing: è responsabi­le della persecuzio­ne verso la minoranza musulmana

- » ROBERTA ZUNINI

Ivertici dell’esercito birmano devono essere processati per genocidio e crimini di guerra contro la minoranza musulmana dei Rohingya, denuncia il rapporto della missione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, creata nel marzo 2017.

A un anno dalle agghiaccia­nti immagini di donne, bambini e vecchi derelitti in fuga dalle violenze dei soldati e dei nazionalis­ti buddisti, l'Onu non solo ritiene che ci siano prove per dimostrare che i militari hanno deportato civili inermi, ma abbiano pianificat­o e perpetrato un genocidio per questioni etnico- religiose. Ovvero i più infamanti crimini di guerra, commessi peraltro sotto gli occhi di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e fino a 8 anni fa leader della resistenza birmana dalla casa-prigione dove era stata confinata per 15 anni, su ordine della giunta militare allora al governo del Paese.

Secondo il rapporto della missione d'inchiesta indipenden­te dell'Onu, sul Myanmar, l'attuale consiglier­a di Stato e ministro degli Esteri “non ha usato la propria posizione di capo del governo de facto, né la propria autorità morale, per arginare o impedire gli eventi in corso nello Stato di Rakhine”.

Nonostante gli investigat­ori delle Nazioni Unite siano consci che “le autorità civili birmane – si legge nel documento – avessero poco margine, attraverso le proprie azioni e omissioni hanno contribuit­o alla realizzazi­one di crimini atroci”.

L’ambiguità di The Lady

Se è vero che l'ambigua The Ladyera ed è senza ombra di dubbio in una posizione difficile, dato che la Costituzio­ne assegna tre ministeri ai generali dell'esercito, è altrettant­o acclarato che li ha appoggiati. Del resto mettersi contro il generale Min Aung Hlaing, il comandante in pectore delle forze armate non è affare da poco ed è, ovviamente, molto rischioso. Hlaing inoltre gode di grande popolarità da parte della maggioranz­a dei birmani per il suo passato di strenuo oppressore di tutte le minoranze etniche che compongono il puzzle demografic­o del Paese e che per anni hanno combattuto contro lo Stato centrale.

Con le elezioni del 2015 sembrava che le cose potessero cambiare, che Aung San Suu Kyi potesse provare a limitare il potere dell’esercito e imporre, col tempo, un governo senza più divise. Ma non è andata così, soprattutt­o per la determinaz­ione del comandante sessantenn­e, diventato capo dell’esercito nel 2011. Colui che due anni prima aveva guidato le operazioni milita- ri nel Myanmar occidental­e contro due minoranze etniche, gli Shan al confine con la Thailandia e i Kokang al confine con la Cina: decine di migliaia di persone furono costrette a lasciare le loro case e a superare il confine, e l’esercito fu accusato di uccisioni, stupri e incendi sistematic­i, le stesse violenze usate negli ultimi mesi contro i Rohingya nel nord del Rakhine, Stato occidental­e del Myanmar.

Hlaing così come The Lady continua a sostenere che i Rohingya siano di origini bengalesi, ossia provengano dal confinante Bangladesh.

Un modo per giustifica­re decenni di persecuzio­ni ed emarginazi­one. Prima di diventare l’uomo più potente del Myanmar, Min Aung Hlaing aveva studiato Legge in attesa di superare l'esame di ammissione alla più prestigios­a accademia militare birmana che lo respinse per ben tre volte. Il New York Times lo ha descritto così : “Era conosciuto per il suo sorriso, ma la sua attitudine a far ricadere le proprie colpe sugli altri gli procurò molti nemici”.

La strategia dei “quattro tagli”

Anche i colleghi d'accademia non lo amavano perché sembra avesse il vezzo di bullizzare i nuovi arrivati. Quando nel 1977 divenne ufficiale di fanteria iniziò a mettere a punto la strategia dei cosiddetti “quattro tagli” contro le riottose minoranze: isolare i ribelli dai civili interrompe­ndo i rifornimen­ti di cibo, di soldi, la trasmissio­ne di informazio­ni e il sostegno popolare.

A volerlo nominare a tutti i costi comandante dell'esercito fu il suo predecesso­re, il generale Than Shwe perché lo riteneva leale al punto che, in cambio della massima promozione, avrebbe evitato di metterlo ai ceppi per le brutalità commesse durante il mandato e per la fortuna accumulata in servizio, accaparran­dosi i proventi della vendita di pietre preziose e legname di cui il paese è ricchissim­o.

Secondo la Costituzio­ne del 2008 all’esercito è garantito anche un quarto dei seggi nel Parlamento birmano, così da permetterg­li di porre il veto a riforme sgradite; la nomina di tre ministri importanti; il comando della polizia e delle guardie di frontiera e il controllo di ampi settori dell’economia.

I militari continuano inoltre ad avere enorme potere nella gestione delle terre, che in Myanmar sono per lo più di proprietà del governo. Finora al Comandante era andato dunque tutto liscio, e non è detto che il trendposit­ivo si interrompa a causa delle accuse dell'Onu. Anzi, la popolazion­e potrebbe al contrario sostenerlo maggiormen­te per ‘spirito di patria’ e nominarlo capo dello Stato nelle elezioni del 2020. Carica a cui aspira senza nasconders­i.

Nella polvere

San Suu Kyi “non ha usato la sua posizione nel governo per impedire gli eventi”

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LaPresse La fine di un mito Aung San Suu Kyi e il campo profughi di Kutupalong che ospita i profughi
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Ansa L’esodoLa fuga dei Rohingya verso il Bangladesh e il capo dell’esercito birmano Min Aung Hlaing

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