SCONTI DI PENA PERCHÉ ORA IL CLAN NON PUÒ PIÙ OPERARE
La decisione I clan tradizionali possono sopravvivere ai loro capi, la cupola del Cupolone, senza il “Nero”, no
Se fosse un film la sentenza di ieri potrebbe intitolarsi “C’era una volta Mafia Capitale”. C’era e non c’è più, di qui le pene ridotte nonostante il 416 bis. La sentenza della Corte di Appello infatti ha riconosciuto l’esistenza di un’associazione mafiosa con a capo Massimo Carminati, ma con tutta probabilità ha ritenuto che “Mafia Capitale” sia stata sterminata dagli arresti, come un dinosauro colpito da un meteorite. Al momento è solo una deduzione basata su un’osservazione: dal 2015 le pene per mafia sono più pesanti.
Se la Corte avesse ritenuto Carminati tuttora capo di un’associazione mafiosa operante, avrebbe dovuto affibbiargli più di 14 anni e mezzo, applicando le pene della nuova legge. Invece è probabile che al “Nero” sia stata applicata la normativa più blanda vigente nel 2014, quando è stato arrestato e Mafia Capitale si è estinta.
COMUNQUE una grande vittoria per la Procura guidata da Giuseppe Pignatone e per i pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e Giuseppe Prestipino. Una grande sconfitta per una parte della classe forense romana, in testa il difensore di Carminati, Giosué Bruno Naso, arrivato a insultare ripetutamente il giornalista Lirio Abbate, colpevole di avere anticipato con le sue inchieste il lavoro dei pm.
Carminati, proprio al suo avvocato Ippolita Naso, figlia di Bruno, confidava dopo aver letto un articolo, quando era in libertà, di voler spaccare la faccia al giornalista. Ciononostante dopo gli attacchi di Bruno Naso, dai suoi colleghi non è arrivata alcuna solidarietà ad Abbate. Anzi. Il presidente della Camera Penale romana Cesare Placanica, nel processo di Appello, dopo Naso, ha attaccato anche lui sul piano personale il giornalista.
Scene mai viste a Palermo, una piazza più abituata ai processi di mafia e ai giornalisti minacciati.
La sentenza di ieri dovrebbe spazzare questo clima da derby e consigliare una partita più tecnica e meno emotiva in Cassazione. Il punto che i giornalisti e gli avvocati del fronte “anti mafia capitale” non vogliono accettare è che il riconoscimento dell’articolo 416 bis non richiede l’esistenza di una cupola mafiosa o di un clan organizzato come i corleonesi. Bastano i requisiti del vincolo associativo e della capacità intimidatoria che da quello deriva. In altri termini se a Roma il nome di Carminati terrorizza imprenditori e politici (non perché è un brutto ceffo ma perché è notoriamente a capo di un gruppo in grado di ottenere obbedienza, profitti e voti grazie all’intimidazione) questa è mafia. Anche se non c’è un padrino, un’iniziazione, un mandamento o una ’ndrina.
La sentenza di primo grado non ha ravvisato i requisiti del 416 bis in quella che Carminati definiva in modo sarcastico “la mafia del benzinaio” di Corso Francia. La Corte d’Appello ieri ha spazzato via le tesi del “Nero”, dell’avvocato Naso e del collega Placanica: ora si può nuovamente parlare di Mafia Capitale in senso proprio.
Per i giudici, un’associazione criminale di stampo mafioso, autonoma e autoctona, magari piccola rispetto alle mafie tradizionali, sotto il cupolone esiste. O meglio esisteva. Nonostante il riconoscimento della mafiosità, le pene si sono ridotte proprio perché mentre Cosa Nostra sopravvive all’arresto di Totò Riina, Mafia Capitale scompare quando il “Nero” va dietro le sbarre.
BISOGNERÀ attendere le motivazioni per capire il ragionamento che ha portato i giudici di Appello a capovolgere l’impostazione cerchiobottista del Tribunale: un colpo al cerchio (l’esclusione del 416 bis) e uno alla botte (le pene alte: 19 anni a Buzzi e 20 a Carminati). In Appello il reato sale di grado e le pene scendono a livelli più “umani” dei 20 anni inflitti al boss Carminati o degli 11 inflitti al politico Luca Gramazio.
Con alcune conseguenze paradossali: l’ex consigliere regionale del Pdl, pur avendo avuto una riduzione a 8 anni e 8 mesi, teoricamente potrebbe tornare in carcere dai domiciliari, sempre che i pm non ravvisino la fine delle esigenze cautelari. Tra gli assolti c’è l’imprenditore Giuseppe Ietto, titolare della società che aveva in gestione i bar della Rai. La Corte potrebbe aver ritenuto i suoi rapporti con Carminati non del tutto “liberi” posto che aveva di fronte il capo di una mafia e non di un’associazione criminale semplice. Sul verdetto dovrà pronunciarsi la Cassazione che però in fase cautelare aveva già condiviso l’impostazione accusatoria.
Le intimidazioni Sconfitti gli avvocati che hanno insultato pubblicamente il cronista Lirio Abbate