Aperture festive dei negozi: come negare il problema
Nel mondo ci sono due tipi di lavoratori. Quelli che hanno avuto la fortuna e, in qualche caso, la bravura di fare il lavoro che amano e che quindi, come spiega Confucio, non lavorano un solo giorno della loro vita e quelli che invece lavorano per vivere. Cioè per mangiare, pagare l’affitto o il mutuo, mandare se ci sono i figli a scuola, vestirli, vederli crescere sperando che un giorno almeno loro possano entrare a far parte della prima categoria.
Il numero delle persone che lavora solo per vivere è ovviamente infinitamente più grande rispetto al primo gruppo, ma di fatto è ben poco rappresentato tra i cosiddetti opinion maker, o come si dice ora tra gli influencer. Chi va in televisione, entra in Parlamento, scrive in prima pagina sui giornali o spopola sui social in genere ha invece sperimentato, maniera maggiore o minore, quella che Warren Beatty chiama l’equazione del successo: “Ce l’hai fatta nel tuo campo quando non sai più se quello che stai facendo è lavorare o giocare”.
Chi invece ha un impiego in un centro commerciale, gestisce un piccolo negozio a conduzione familiare o fa il commesso precario in una catena di abbigliamento, ben difficilmente prende il proprio lavoro per un gioco. Anche perché, se guadagna 1.200 euro netti al mese, di soldi e di tempo per divertirsi non ne ha. Soprattutto se in caso di lavoro domenicale obbligatorio finisce per percepire solo 15 o 20 euro in più rispetto a una giornata normale. Una maggiorazione talmente esigua da rendere per chiunque preferibile restare a casa con la propria famiglia.
ECCO, BUONA PARTE delle polemiche di queste ore sulla proposta del governo di lasciare aperto alla domenica a rotazione solo il 25 per cento degli esercizi commerciali presenti in ogni Comune, si spiega anche con la divisione (insanabile?) tra i due mondi, o se preferite, tra le due classi sociali. Chi sta sopra, e non si rende più conto che lavoro malpagato e senza prospettive di carriera è solo sinonimo di sacrifici e fatica, trova insensato che si possa tentare di migliorare l’esistenza di centinaia di migliaia di famiglie Non tanto per scelta politica (essere all’opposizione dei gialloverdi è perfettamente legittimo) o per analisi di tipo economico, ma per una sorta di condizione antropologica: quella che ti spinge a pensare di vivere in un grande gioco e non in un mondo composto da persone in carne e ossa. Fino a pochi anni fa non era così. Nella scorsa legislatura, ad esempio, erano state presentate ben sette proposte di legge (di diverso colore) per “regolamentare l’apertura” dei negozi e mitigare gli effetti della deregulationfirmata da Mario Monti. Il Pd aveva prima pensato di incaricare i sindaci di redigere pianti triennali di chiusura e apertura “in modo da garantire la piena e costante fruibilità dei cittadini nel rispetto della tutela dei diritti dei lavoratori”. Poi nel 2015 altri parlamentari dem avevano pensato di “annullare l’obbligo di lavoro nei giorni festivi”, con tanto di multe fino a 300 euro “per ogni prestazione lavorativa imposta” e altri ancora avevano la chiusura obbligatoria in dodici domeniche l’anno. Mentre nel Pdl Antonino Minardo chiedeva ai Comuni di “regolamentare gli orari di apertura (…) al fine di garantire ai lavoratori il diritto a un adeguato riposo domenicale o festivo nonché alla conciliazione tra lavoro e famiglia”. Nessuno parlava come oggi di spinte anti-moderniste o di fobie anti-consumistiche. Per tutti c’era un problema e si discuteva di come risolverlo. Oggi, invece, il problema si cerca solo di negarlo. E questa davvero è la cosa che non va.