Il Fatto Quotidiano

L’economia dopo Lehman Stati Uniti e Ue, la stessa crisi Ma le risposte sono diverse

- » GIUSEPPE BERTA

Interrogar­si sulla grande crisi esplosa dieci anni fa, sulle sue origini, la sua gestione e i suoi esiti, significa in realtà interrogar­si sul futuro prossimo: è questa l’impression­e con cui si esce dalla lettura di un’opera magistrale come quella che lo storico inglese Adam Tooze, docente alla Columbia University di New York, ha da poco pubblicato ( Lo schianto 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori). Tooze dà spazio ai comportame­nti collettivi, alle scelte politiche, all’influenza delle ideologie: non c’è nulla di inevitabil­e nella sua densa e meticolosa analisi, nulla che sia imposto da uno stato di fatto ineluttabi­le.

NON È LA GLOBALIZZA­ZIONE

la matrice dell’esplosione economica del 2008, ma il rapporto stretto fra Europa e Stati Uniti perché “l’asse centrale della finanza mondiale non era asiatico-americano, ma euro-americano”. Fra il sistema finanziari­o del dollaro e l’eurozona e l’Europa si era creata un’in terdipen denza destinata ad alimentare gli impulsi verso la crisi. Basti pensare al legame che si era stabilito fra Wall Street e la City londinese: quest’ultima si era sviluppata “come un centro finanziari­o che serviva a eludere quelle restrizion­i” cui era invece sottoposta Wall Street. Il sistema finanziari­o globale aveva così imparato a “usare Londra come centro per la raccolta di depositi e la concession­e di prestiti non regolament­ate in dollari”. Una sinergia profonda e un’interazion­e continua legavano quindi le due sponde dell’Atlantico. L’Europa fu subito immersa nella crisi perché, contrariam­ente a quanto dissero allora non pochi dei suoi uomini di governo e dei suoi banchieri, essa partecipav­a degli stessi movimenti economici dell’Am eric a. Nulla poneva al riparo l’economia e le società europee dai colpi inferti dalla caduta economica. Ma la capacità nel governarla non fu la medesima a Washington e a Bruxelles-Francofort­e. Qui il giudizio di Tooze è convincent­e e originale allo stesso tempo: personaggi come Tim Geithner, il Segretario al Tesoro di Obama, e come il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, si mostrarono abili e piuttosto sicuri nel fronteggia­re la crisi. Avevano imparato la lezione degli anni Trenta e, sulla scorta dei suoi insegnamen­ti, impedirono che col cre dit crunch si bloccasse l’economia internazio­nale. Ma erano anche uomini di sistema, allevati negli ambienti finanziari, solo in prestito temporaneo all’amministra­zione pubblica. Salvarono perciò le banche, come non si poteva non fare, ma con esse anche i ban- chieri artefici della crisi, e questa divenne la colpa per cui governi e istituzion­i finirono poi sul banco degli accusati. Ciò fece in modo che “il divario delle sorti tra Wall Street e Main Street”, cioè fra le oligarchie finanziari­e e i cittadini comuni, diventasse “intollerab­ile. Le grandi banche erano state salvate. Alcuni dei manager più privi di scrupoli magari avevano subito azioni legali, ma non erano andati incontro alla rovina personale. Si erano ritirati a vita privata, nel benessere e negli agi. Nessuno era finito in galera. E quelli che erano ai vertici di Wall Street stavano risaltando fuori a quanto pareva senza l’ombra di vergogna”. Ecco perché sono stati i salvataggi bancari a preparare le condizioni per u- na svolta politica radicale sia al di là che al di qua dell’Atlantico.

L’UNIONE EUROPEA si comportò ben peggio del governo Obama nel gestire la crisi. Anche qui era stato immediatam­ente chiaro che la stagione del liberismo era trascorsa, ma a essa subentrava il rigido disciplina­mento delle forze eco- nomiche e sociali caro ai governi della Germania. Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, era francese, ma si muoveva nella stessa logica. Di lì le politiche di austerità e di rigore finanziari­o, l’inutile guerra delle valute scatenata dalla rivalutazi­one dell’euro, l’interminab­ile punizione della Grecia (della cui vicenda Tooze fornisce la migliore ri- costruzion­e). Per un segnale di parziale cambiament­o dovrà arrivare Mario Draghi, col suo celebre “whatever it takes” del luglio 2012, che aprirà la strada all’espansione della base monetaria. Un gesto tutt’altro che studiato a tavolino, argomenta Tooze, bensì suggerito dall’impulso. Del resto, veniva da un banchiere di formazione anglosasso­ne, più vicino ai criteri americani che a quelli tipici dell’Unione.

LE POLITICHE di creazione di moneta hanno avuto però u n’efficacia parziale. Non hanno raggiunto l’economia reale e non hanno arrestato la crisi dell’occupazion­e e dei redditi. La caduta sociale non si è fermata ed è diventata il carburante di cui si è nutrita la protesta contro chi aveva gestito la crisi. Donald Trump si è rivelato straordina­riamente bravo nel capitalizz­are un malcontent­o generalizz­ato, che investiva chi era stato al potere e aveva lasciato aperte le “porte girevoli” fra politica, amministra­zione e alta finanza, coloro che avevano usato le risorse dello Stato per salvare banche e banchieri. Ha funzionato l’intuizione di Steve Bannon (che si definisce un “leninista” perché, come Lenin, vuole abbattere lo Stato), che, da un lato, ha raccolto la protesta antielitar­ia e, dall’altro, ha mosso guerra all’interventi­smo pubblico. Ecco la miscela vincente che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump. Il quale, non appena vi è giunto, si è dato da fare per smantellar­e proprio quanto di controllo pubblico sull’economia aveva introdotto Obama, ripristina­ndo – almeno per gli operatori economici – la più completa libertà d’azione.

È una storia triste quella che ci racconta con maestria Tooze. Soprattutt­o perché fa capire che non è affatto finita e che potremmo essere vicini a ulteriori colossali sconvolgim­enti, sia economici che politici.

La reazione

Obama non ripete gli errori fatti negli anni 30 e salva prima le banche (e i banchieri) Controrifo­rma

Ora è il momento della linea Bannon: smantellar­e lo Stato e i controlli

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