L’economia dopo Lehman Stati Uniti e Ue, la stessa crisi Ma le risposte sono diverse
Interrogarsi sulla grande crisi esplosa dieci anni fa, sulle sue origini, la sua gestione e i suoi esiti, significa in realtà interrogarsi sul futuro prossimo: è questa l’impressione con cui si esce dalla lettura di un’opera magistrale come quella che lo storico inglese Adam Tooze, docente alla Columbia University di New York, ha da poco pubblicato ( Lo schianto 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori). Tooze dà spazio ai comportamenti collettivi, alle scelte politiche, all’influenza delle ideologie: non c’è nulla di inevitabile nella sua densa e meticolosa analisi, nulla che sia imposto da uno stato di fatto ineluttabile.
NON È LA GLOBALIZZAZIONE
la matrice dell’esplosione economica del 2008, ma il rapporto stretto fra Europa e Stati Uniti perché “l’asse centrale della finanza mondiale non era asiatico-americano, ma euro-americano”. Fra il sistema finanziario del dollaro e l’eurozona e l’Europa si era creata un’in terdipen denza destinata ad alimentare gli impulsi verso la crisi. Basti pensare al legame che si era stabilito fra Wall Street e la City londinese: quest’ultima si era sviluppata “come un centro finanziario che serviva a eludere quelle restrizioni” cui era invece sottoposta Wall Street. Il sistema finanziario globale aveva così imparato a “usare Londra come centro per la raccolta di depositi e la concessione di prestiti non regolamentate in dollari”. Una sinergia profonda e un’interazione continua legavano quindi le due sponde dell’Atlantico. L’Europa fu subito immersa nella crisi perché, contrariamente a quanto dissero allora non pochi dei suoi uomini di governo e dei suoi banchieri, essa partecipava degli stessi movimenti economici dell’Am eric a. Nulla poneva al riparo l’economia e le società europee dai colpi inferti dalla caduta economica. Ma la capacità nel governarla non fu la medesima a Washington e a Bruxelles-Francoforte. Qui il giudizio di Tooze è convincente e originale allo stesso tempo: personaggi come Tim Geithner, il Segretario al Tesoro di Obama, e come il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, si mostrarono abili e piuttosto sicuri nel fronteggiare la crisi. Avevano imparato la lezione degli anni Trenta e, sulla scorta dei suoi insegnamenti, impedirono che col cre dit crunch si bloccasse l’economia internazionale. Ma erano anche uomini di sistema, allevati negli ambienti finanziari, solo in prestito temporaneo all’amministrazione pubblica. Salvarono perciò le banche, come non si poteva non fare, ma con esse anche i ban- chieri artefici della crisi, e questa divenne la colpa per cui governi e istituzioni finirono poi sul banco degli accusati. Ciò fece in modo che “il divario delle sorti tra Wall Street e Main Street”, cioè fra le oligarchie finanziarie e i cittadini comuni, diventasse “intollerabile. Le grandi banche erano state salvate. Alcuni dei manager più privi di scrupoli magari avevano subito azioni legali, ma non erano andati incontro alla rovina personale. Si erano ritirati a vita privata, nel benessere e negli agi. Nessuno era finito in galera. E quelli che erano ai vertici di Wall Street stavano risaltando fuori a quanto pareva senza l’ombra di vergogna”. Ecco perché sono stati i salvataggi bancari a preparare le condizioni per u- na svolta politica radicale sia al di là che al di qua dell’Atlantico.
L’UNIONE EUROPEA si comportò ben peggio del governo Obama nel gestire la crisi. Anche qui era stato immediatamente chiaro che la stagione del liberismo era trascorsa, ma a essa subentrava il rigido disciplinamento delle forze eco- nomiche e sociali caro ai governi della Germania. Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, era francese, ma si muoveva nella stessa logica. Di lì le politiche di austerità e di rigore finanziario, l’inutile guerra delle valute scatenata dalla rivalutazione dell’euro, l’interminabile punizione della Grecia (della cui vicenda Tooze fornisce la migliore ri- costruzione). Per un segnale di parziale cambiamento dovrà arrivare Mario Draghi, col suo celebre “whatever it takes” del luglio 2012, che aprirà la strada all’espansione della base monetaria. Un gesto tutt’altro che studiato a tavolino, argomenta Tooze, bensì suggerito dall’impulso. Del resto, veniva da un banchiere di formazione anglosassone, più vicino ai criteri americani che a quelli tipici dell’Unione.
LE POLITICHE di creazione di moneta hanno avuto però u n’efficacia parziale. Non hanno raggiunto l’economia reale e non hanno arrestato la crisi dell’occupazione e dei redditi. La caduta sociale non si è fermata ed è diventata il carburante di cui si è nutrita la protesta contro chi aveva gestito la crisi. Donald Trump si è rivelato straordinariamente bravo nel capitalizzare un malcontento generalizzato, che investiva chi era stato al potere e aveva lasciato aperte le “porte girevoli” fra politica, amministrazione e alta finanza, coloro che avevano usato le risorse dello Stato per salvare banche e banchieri. Ha funzionato l’intuizione di Steve Bannon (che si definisce un “leninista” perché, come Lenin, vuole abbattere lo Stato), che, da un lato, ha raccolto la protesta antielitaria e, dall’altro, ha mosso guerra all’interventismo pubblico. Ecco la miscela vincente che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump. Il quale, non appena vi è giunto, si è dato da fare per smantellare proprio quanto di controllo pubblico sull’economia aveva introdotto Obama, ripristinando – almeno per gli operatori economici – la più completa libertà d’azione.
È una storia triste quella che ci racconta con maestria Tooze. Soprattutto perché fa capire che non è affatto finita e che potremmo essere vicini a ulteriori colossali sconvolgimenti, sia economici che politici.
La reazione
Obama non ripete gli errori fatti negli anni 30 e salva prima le banche (e i banchieri) Controriforma
Ora è il momento della linea Bannon: smantellare lo Stato e i controlli