Il Fatto Quotidiano

DISCARICA DI BUSSI ROMANDINI “FU SCORRETTO”

- » ANTONIO MASSARI

Era il 13 maggio 2015 quando il Fatto rivelava le “gravi scorrettez­ze” che aleggiavan­o sul processo di primo grado per la discarica Montedison di Bussi. Le “gravi scorrettez­ze” avevano preceduto una sentenza che, in primo grado, il 19 dicembre 2014, aveva derubricat­o il reato di disastro ambientale in disastro colposo. E aveva quindi giudicato gli imputati non colpevoli per sopraggiun­ta prescrizio­ne. Ieri il Csm ha riconosciu­to – si tratta del terzo pronunciam­ento di un giudice sulla questione – che il Fattoaveva scritto la verità. In molti, in attesa di leggere le motivazion­i, possono – anche a ragione – sostenere che la condanna subita dal giudice Camillo Romandini, ovvero la perdita di due mesi di anzianità, sia pari a uno scappellot­to. E che la montagna – un processo penale e uno disciplina­re – abbia in fondo partorito il più classico dei topolini.

LA RICHIESTA dell’accusa – sospension­e dall’attività per ben sei mesi – era senza dubbio più pesante. Ed è altrettant­o vero che molti punti oscuri restano, nonostante le indagini svolte in un procedimen­to penale, terminato con un’archiviazi­one, e in un disciplina­re, per quanto terminato ieri con una condanna. In questo caso, però, il topolino resterà lì per sempre a mostrare quanto gran- de fosse la vera montagna che l’ha partorito: uno dei processi più importanti della storia abruzzese, forse il più importante, senza dubbio tra i più delicati della storia del Paese.

Nel febbraio del 2017, la Corte d’assise d’appello riconosce che a Bussi vi fu, grazie a chi gestì quella discarica, all’epoca dei fatti in mano alla Montedison, un avvelename­nto colposo delle acque. Non solo. Vi fu anche un disastro colposo che questa volta fu giudicato “aggravato”. Il che ribaltò la sentenza di primo grado, poiché furono ricalcolat­i i tempi e si stabilì che non agiva alcuna prescrizio­ne. Per comprender­e la posta in gioco di questo processo, basti pensare che tra i difensori degli imputati c’ era Paola Severino, ex ministro della Giustizia. E che il presidente della Corte d’Assise, Geremia Spiniello, fu ricusato nel febbraio 2014, dieci mesi prima della sentenza, per aver espresso pubblicame­nte un parere – “faremo giustizia per il territorio” – sul processo. Prese il suo posto Camillo Romandini che, come scrisse il Fatto all’epoca, a poche ore dalla sentenza, incontrò a cena le giudici popolari e le rese edotte su quel che sarebbe accaduto, per la responsabi­lità civile dei giudici, se avessero condan- nato per dolo gli imputati e questi ultimi, in secondo grado, fossero stati assolti. “Le va di giocarsi tutto questo?”, disse alla giudice proprietar­ia del ristorante dove avvenne la cena. Le giudici confidaron­o al Fatto che avrebbero voluto condannare per dolo. Ma questo non avvenne e non sappiamo – perché nessun giudice può rivelarlo – quel che accadde in camera di consiglio.

QUEL CHE sappiamo è che si arrivò a una prescrizio­ne – perché il reato fu considerat­o senza aggravanti, secondo l’appello – e agli imputati fu risparmiat­a la pena. Il punto è che, sebbene di responsabi­lità civile si discutesse, in quei giorni la norma non era vigente. E nessuno avrebbe potuto giocarsi alcunché, tantomeno un ristorante. Oggi Romandini s’è invece giocato la sua credibilit­à. Al di là dei due mesi d’anzianità persi, è questo quel che conta. E l’ha persa commettend­o una “grave scorrettez­za” proprio su un processo così importante. La condanna – lieve o pesante che sia, su questo punto, poco importa – dimostra anche qualcos’altro: un giornalism­o libero e indipenden­te, con le sue inchieste, può ancora mettere all’angolo chi è “scorretto”, qualsiasi ruolo abbia, rivelando l’osceno. Nella storia del processo di Bussi, la montagna resterà legata per sempre al suo topolino.

LA VERITÀ DEL “FATTO” Prima della sentenza che trasformò il reato da disastro ambientale a colposo il magistrato influenzò le giudici popolari

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