Russiagate, il fido Manafort passa dalla parte dei federali
Stati Uniti Un punto per il procuratore Mueller, l’ex manager della campagna 2016 di Trump raggiunge un accordo: collaborerà
Manafort collaborerà con i federali. Gli investigatori del team del procuratore Rob ert Mueller, che indaga sul Russiagate, lo hanno dichiarato in modo ufficiale: Paul Manafort, l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, ha raggiunto un accordo in vista del secondo processo.
Quale è stato il patto? Manafort ha accettato di dichiararsi colpevole di due reati: cospirazione contro gli Stati Uniti e cospirazione per ostruire la giustizia; il suo avvocato, Kevin Downing, ha dichiarato che i dieci capi di imputazione su cui la giuria del primo processo non aveva raggiunto un accordo saranno lasciati cadere.
IL CONSULENTE politico rischia comunque fino a 10 anni di carcere, rinunciando a quattro proprietà di lusso del valore di diversi milioni di dollari, con piscine, campi da tennis e da basket, a conti bancari e a polizze sulla vita. La sua collaborazione può impensierire il presidente Trump? Non è ancora chiaro, di certo diventa concreta una situazione che lui stesso aveva negato: “Al contrario di Michael Cohen, Paul Manafort non ha ce- duto e non ha inventato storie per ottenere un accordo. Tanto rispetto per un uomo di valore”. Così il 22 agosto The Donald elogiava il fido Paul e sferrava un pugno da KO al suo ex legale Cohen. Il ma- nager era appena stato giudicato colpevole in Virginia secondo otto capi d’imputazione, compresa frode fiscale e finanziaria; non aveva pagato le tasse su introiti legati a consulenze per il governo fi- lorusso ucraino di Viktor Yanukovyche per frodare le banche in modo da ottenere finanziamenti. Cohen, ex avvocato del tycoon, si era invece dichiarato colpevole per violazione delle leggi elettorali in relazione al versamento di denaro a Stormy Daniels, la pornostar pagata per tacere sulla relazione avuta proprio nel 2006 con l’attuale presidente.
“MI DISPIACE davvero molto per Paul Manafort e per la sua famiglia – scriveva Trump – la ‘giustizia’ ha preso un caso fiscale di 12 anni fa e, tra le altre cose, ha esercitato una pressione tremenda nei suoi confronti e lui, al contrario di Michael Cohen, si è rifiutato di cedere”.
Non è andata così e ora, come in una delle migliori sceneggiature di un legal-thriller, il colpo di scena può avere un effetto a catena. Gli investigatori di Mueller sono sempre alla ricerca di prove dei contatti fra lo staff dell’attuale presidente ed emissa- ri legati al Cremlino che avevano lo scopo di inquinare le elezioni. Manafort è fra coloro che erano presenti a un incontro tra il figlio del presidente, Donald Trump Jr, il genero Jared Kushner e un avvocato russo che aveva offerto loro informazioni con cui danneggiare la candidata democratica alle presidenziali, Hi lla ry Clinton . Trump ha sempre dichiarato di non essere a conoscenza di quell’incontro. Manafort aveva i suoi agganci sul fronte dell’est pro Mosca: aveva lavorato per Yanukovych e il suo partito protetto dal Cremlino, tra 2005 e 2015. Dunque, Manafort è il tipo giusto per una svolta del Russiagate? Si vedrà. Intanto dalla Casa Bianca la portavoce Sarah Sanders mette le mani avanti: la collaborazione del lobbista “non ha assolutamente nulla a che vedere con il presidente o con la sua vittoriosa campagna presidenziale del 2016”.
La strategia Dalla Casa Bianca la portavoce Sanders: “Nulla a che fare con la vittoria del presidente”