Il Fatto Quotidiano

MA DRAGHI APRE AI GIALLO-VERDI

- » STEFANO FELTRI

Ora che la legge di Bilancio inizia a prendere forma, diventa sempre più evidente che in Italia ci sono due governi: uno pacato, europeista, rispettoso delle regole europee, l’altro confuso, aggressivo, attento ai tg e ai sondaggi più che ai risultati. Le polemiche intorno alle dichiarazi­oni di giovedì del presidente della Bce, Mario Draghi, lo hanno reso evidente. Nella sua conferenza stampa mensile, Draghi ha risposto alle domande dei cronisti sull’Italia con una formula che è parsa insolitame­nte netta: “Negli ultimi mesi le parole sono cambiate molte volte e quello che ora aspettiamo sono i fatti, principalm­ente la legge di Bilancio e la successiva discussion­e parlamenta­re”. E poi: “La Banca centrale europea si atterrà a ciò che hanno detto il primo ministro italiano, il ministro dell’Economia e il ministro degli Esteri, e cioè che l’Italia rispetterà le regole”. La seconda parte richiamava le dichiarazi­oni del ministro dell’Economia tedesco, Olaf Scholz, che il 7 settembre, dell’Italia, aveva detto: “Io mi aspetto che tutti rispettino le regole”.

IL MESSAGGIO di Draghi alla politica italiana era chiaro: la Bce si fida e legittima come interlocut­ori i tre protagonis­ti dell’esecutivo che hanno dato prova di serietà e pragmatism­o, cioè il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, veterano dei negoziati a Bruxelles. Draghi non cita Paolo Savona, che pure ha incontrato per discutere del mai dettagliat­o “piano da 50 miliardi” proposto dal ministro degli Affari europei. E chiarisce che l’altro governo, quello delle dichiarazi­oni sulla disponibil­ità a sforare il tetto del deficit al 3 per cento del Pil, quello che usa la Commission­e Ue come capro espiatorio, finisce per danneggiar­e gli italiani con dichiarazi­oni che fanno salire lo spread. E come hanno dimostrato le analisi del think tank Bruegel o dell’Osservator­io sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, i danni sull’economia italiana sono tangibili e immediati. Per l’aumento dei costi di finanziame­nto del debito pubblico, ma pure per le imprese. Anche la fuga di capitali in corso dall’Italia preoccupa la Bce: 33,4 miliardi di riduzione di asset italiani in mani straniere a maggio, 42,4 a giugno, i dati su luglio pare saranno altrettant­o negativi. L’andamento dei tassi sul debito a due anni, in preoccupan­te crescita, indica che gli investitor­i si aspettano pericoli imminenti. Che sono tutti politici e tutti italiani perché, a differenza che nel 2011-2012, questa crisi di fiducia non riguarda l’eurozona nel suo complesso ma soltanto l’Italia e soltanto la politica.

MATTEO SALVINI ha subito approfitta­to delle parole di Draghi e di una coincidenz­a temporale con le critiche del commissari­o europeo Pierre Moscovici (“Vedo dei piccoli Mussolini”) e del presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno (“L’Italia sa esattament­e ciò che implicano le regole e cosa significan­o”). Il ministro dell’Interno ha colto l’occasione per evocare la sua usuale narrativa del conflitto tra Italia e Unione europea, addirittur­a invitando Draghi a un atteggiame­nto di umiliante sottomissi­one, peraltro incompatib­ile con il mandato della Bce: “Conto che gli italiani in Europa facciano gli interessi dell’Italia come fanno tutti gli altri Paesi, aiutino e consiglino e non critichino e basta”.

Il timore di molti in- vestitori e, si capisce dalle dichiarazi­oni, anche di Draghi, è che i tre moschettie­ri del buon senso – Conte, Tria e Moavero – raggiungan­o un compromess­o accettabil­e per i mercati in Consiglio dei ministri, magari con un deficit per il 2019 all’1,6 per cento del Pil, ma poi questo equilibrio venga smantellat­o nelle commission­i parlamenta­ri affidate a leghisti radicali, Alberto Bagnai (Senato, Finanze) e Claudio Borghi (Bilancio, Camera). I veterani della politica economica ricordano che è dalla riforma del 1988 che il Parlamento non può più modificare i saldi di bilancio decisi dal governo, gli emendament­i a ciò finalizzat­i dovrebbero essere quindi dichiarati inammissib­ili. Ma le vie della finanza creativa e spregiudic­ata sono infinite. La lista delle promesse da finanziare pare ancora troppo lunga per essere compatibil­e con quel deficit all’1,6 per cento. Il dato sulla produzione industrial­e di luglio (-1,8 per cento invece del +0,3 atteso) è un segnale d’allarme per la crescita di quest’anno e del prossimo, quando il Pil potrebbe arrancare a un ritmo inferiore all’1 per cento. E questo significa vari miliardi in meno per la politica economica.

Draghi ha offerto una sponda di legittimit­à alla parte moderata dell’esecutivo per affrontare questa difficile situazione, in cui un’investitur­a esterna serve a placare le ansie degli investitor­i e a evitare che sul costo del debito si scarichino anche paure infondate. Ora resta da capire se è abbastanza. O se le spinte più violente contro l’Ue e i suoi vincoli, che covano dentro l’esecutivo e la maggioranz­a, avranno la forza da molti temuta.

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