Ambasciata e Servizi: Italia nuda in Libia
Verso le elezioni Il contestato ambasciatore Perrone non rientrerà, il capo dell’Aise Manenti è in via di sostituzione. Ma potrebbe restare
L’Italia rischia di affrontare il momento più delicato dell’infinita crisi libica senza i suoi esperti sul campo. L’ambasciatore Giuseppe Perrone non è mai tornato in Libia dopo le ferie e probabilmente non ci tornerà, il capo del servizio segreto estero (Aise) Alberto Manenti, che ha gestito la politica italiana in Libia, doveva essere sostituito insieme al capo del coordinamento dell’intelligence, il Dis, Alessandro Pansa. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha deciso l’avvicendamento dei due vertici dei servizi prorogati in primavera dal governo Gentiloni. Lo stallo che si è generato tra Lega e M5S sulle poltrone potrebbe spingere il governo Conte a una decisione imprevista: continuare ad avvalersi di Manenti, rimandando l’av vi ce nd am en to all’Aise.
MANENTI AVEVA AVUTO l’incarico formale dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) di occuparsi di Libia: nato a Tarhouna nel 1952, Manenti parla l’arabo e conosce la Libia e i suoi protagonisti come nessun altro, in questi anni ha tenuto rapporti con il premier del governo riconosciuto dall’Onu a Tripoli, Fayez al Serraj, quanto con il maresciallo Khalifa Haftar che controlla la Cirenaica dal governo parallelo di Tobruk. Il predestinato a prendere il suo posto è il suo vice, il generale Giovanni Caravelli, anche lui attivo sul dossier Libia. Come ha rivelato l’Espresso, però, i segnali di qualche tensione intorno al passaggio di consegne si registrano perfino in Libia, dove sono apparse scritte sui muri, pare di Tripoli, di scritte tipo “Gianni Garavelli e servizi segreti italiani uscite dalla Libia!”. Forse messaggi interni al mondo dell’intelligence, forse tensioni locali.
In parallelo al delicato passaggio di consegne nell’intel- ligence si sta consumando la crisi diplomatica che riguarda l’ambasciatore Giuseppe Perrone. A inizio agosto, in un’intervista a una televisione locale, Perrone ha detto che non c’è fretta di fare le elezioni se non ci sono le condizioni di sicurezza (dice lui) o che le elezioni previste per il 10 dicembre da un vertice di Parigi di fine maggio con Serraj e Haftar vanno rinviate (così hanno capito i libici). Morale: Perrone non è mai tornato in Libia dopo le ferie in Italia e difficilmente ci tornerà. Sono arrivate lamentele via social network dal governo di Tobruk che risponde ad Haftar, ma pure da Tripoli e da Serraj, in modo più riservato, la Farnesina aveva ricevuto rimostranze. Perrone è stato praticamente l’un i c o ambasciatore occidentale attivo a Tripoli in questi anni ed è rimasto vittima delle faide locali, oltre che delle guerre di potere in Italia, anche per una sua certa disinvoltura nell’uso di Twitter e n el l’in te rv enire nel dibattito libico. La Farnesina non può scaricarlo formalmente e c’è ancora la speranza che la situazione si normalizzi, ma per ora è tutto congelato e quando l’11 settembre il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha incontrato Haftar a Bengasi, Perrone non c’era.
L’ITALIA STA o r ga n i z z an d o per novembre, a Sciacca, una conferenza con tutti gli attori della scena libica, non soltanto Haftar e Serraj. Deve bilanciare l’attivismo francese (il presidente Emmanuel Macron reclama un ruolo da regista) e approfittare della delicata tregua ottenuta dall’Onu il 4 settembre, dopo che per una settimana la Settima Brigata di Tarhouna guidata da Salah Badi ha lanciato un’offensiva a Tripoli contro le milizie che sostengono il governo Serraj, appoggiato fino ad allora anche dalla stessa Brigata. Un semplice posizionamento in vista della campagna elettorale che è costato comunque 60 morti.
Moavero, con l’a b i t ua l e basso profilo, ha modificato la linea tenuta dai governi precedenti e sta cercando di dialogare con tutti, a cominciare da Haftar (sostenuto dall’Egitto, Paese su cui è in corso una pressione diplomatica a colpi di visite ministeriali), invece che con il solo Serraj. Ma ora l’Italia rischia di trovarsi senza uomini sul campo e con un certo caos nella catena di comando. Ragion per cui l’ipotesi di una proroga – informale, rimandando cioè la successione – di Manenti fino alla naturale scadenza di aprile 2019, inizia a sembrare dentro l’esecutivo la soluzione più indolore.
Le scadenze Prima la conferenza in Italia a novembre, poi il voto decisivo atteso per dicembre