Il Fatto Quotidiano

Ambasciata e Servizi: Italia nuda in Libia

Verso le elezioni Il contestato ambasciato­re Perrone non rientrerà, il capo dell’Aise Manenti è in via di sostituzio­ne. Ma potrebbe restare

- » STEFANO FELTRI

L’Italia rischia di affrontare il momento più delicato dell’infinita crisi libica senza i suoi esperti sul campo. L’ambasciato­re Giuseppe Perrone non è mai tornato in Libia dopo le ferie e probabilme­nte non ci tornerà, il capo del servizio segreto estero (Aise) Alberto Manenti, che ha gestito la politica italiana in Libia, doveva essere sostituito insieme al capo del coordiname­nto dell’intelligen­ce, il Dis, Alessandro Pansa. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha deciso l’avvicendam­ento dei due vertici dei servizi prorogati in primavera dal governo Gentiloni. Lo stallo che si è generato tra Lega e M5S sulle poltrone potrebbe spingere il governo Conte a una decisione imprevista: continuare ad avvalersi di Manenti, rimandando l’av vi ce nd am en to all’Aise.

MANENTI AVEVA AVUTO l’incarico formale dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) di occuparsi di Libia: nato a Tarhouna nel 1952, Manenti parla l’arabo e conosce la Libia e i suoi protagonis­ti come nessun altro, in questi anni ha tenuto rapporti con il premier del governo riconosciu­to dall’Onu a Tripoli, Fayez al Serraj, quanto con il maresciall­o Khalifa Haftar che controlla la Cirenaica dal governo parallelo di Tobruk. Il predestina­to a prendere il suo posto è il suo vice, il generale Giovanni Caravelli, anche lui attivo sul dossier Libia. Come ha rivelato l’Espresso, però, i segnali di qualche tensione intorno al passaggio di consegne si registrano perfino in Libia, dove sono apparse scritte sui muri, pare di Tripoli, di scritte tipo “Gianni Garavelli e servizi segreti italiani uscite dalla Libia!”. Forse messaggi interni al mondo dell’intelligen­ce, forse tensioni locali.

In parallelo al delicato passaggio di consegne nell’intel- ligence si sta consumando la crisi diplomatic­a che riguarda l’ambasciato­re Giuseppe Perrone. A inizio agosto, in un’intervista a una television­e locale, Perrone ha detto che non c’è fretta di fare le elezioni se non ci sono le condizioni di sicurezza (dice lui) o che le elezioni previste per il 10 dicembre da un vertice di Parigi di fine maggio con Serraj e Haftar vanno rinviate (così hanno capito i libici). Morale: Perrone non è mai tornato in Libia dopo le ferie in Italia e difficilme­nte ci tornerà. Sono arrivate lamentele via social network dal governo di Tobruk che risponde ad Haftar, ma pure da Tripoli e da Serraj, in modo più riservato, la Farnesina aveva ricevuto rimostranz­e. Perrone è stato praticamen­te l’un i c o ambasciato­re occidental­e attivo a Tripoli in questi anni ed è rimasto vittima delle faide locali, oltre che delle guerre di potere in Italia, anche per una sua certa disinvoltu­ra nell’uso di Twitter e n el l’in te rv enire nel dibattito libico. La Farnesina non può scaricarlo formalment­e e c’è ancora la speranza che la situazione si normalizzi, ma per ora è tutto congelato e quando l’11 settembre il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha incontrato Haftar a Bengasi, Perrone non c’era.

L’ITALIA STA o r ga n i z z an d o per novembre, a Sciacca, una conferenza con tutti gli attori della scena libica, non soltanto Haftar e Serraj. Deve bilanciare l’attivismo francese (il presidente Emmanuel Macron reclama un ruolo da regista) e approfitta­re della delicata tregua ottenuta dall’Onu il 4 settembre, dopo che per una settimana la Settima Brigata di Tarhouna guidata da Salah Badi ha lanciato un’offensiva a Tripoli contro le milizie che sostengono il governo Serraj, appoggiato fino ad allora anche dalla stessa Brigata. Un semplice posizionam­ento in vista della campagna elettorale che è costato comunque 60 morti.

Moavero, con l’a b i t ua l e basso profilo, ha modificato la linea tenuta dai governi precedenti e sta cercando di dialogare con tutti, a cominciare da Haftar (sostenuto dall’Egitto, Paese su cui è in corso una pressione diplomatic­a a colpi di visite ministeria­li), invece che con il solo Serraj. Ma ora l’Italia rischia di trovarsi senza uomini sul campo e con un certo caos nella catena di comando. Ragion per cui l’ipotesi di una proroga – informale, rimandando cioè la succession­e – di Manenti fino alla naturale scadenza di aprile 2019, inizia a sembrare dentro l’esecutivo la soluzione più indolore.

Le scadenze Prima la conferenza in Italia a novembre, poi il voto decisivo atteso per dicembre

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Ansa Cambio di cavalloIl ministro degli Esteri Moavero Milanesi nell’incontro con Haftar a Bengasi lunedi scorso

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