Il Fatto Quotidiano

25 anni e non sentirli

Corsierico­rsi Nel ’93 il Caimano era nei guai e non aveva più amici alla Rai e al governo. Proprio come oggi, infatti chiede aiuto a Salvini

- » PETER GOMEZ E MARCO TRAVAGLIO

Come se il tempo si fosse fermato a 25 anni fa, riecco B. in ambasce perché non controlla più il governo, teme la concorrenz­a della Rai e trema all’idea di perdere pubblicità sulle sue tv. Nel 1993 i suoi referenti politici (il Caf Craxi-Andreotti- Forlani) erano travolti da Tangentopo­li, al governo c’erano i tecnici di Ciampi e alla Rai la politica “amica” era stata rimpiazzat­a dai “p rofessori ”, che non obbedivano ad altri input se non a quelli aziendali. Nel 2018 Forza Italia – che ha fatto parte di cinque governi e ne ha ricattati otto di centrosini­stra, ottenendo vantaggi per le tv e i processi del padrone – ha perso rovinosame­nte le elezioni e i sondaggi la danno sotto l’8%. Per la prima volta dopo 35 anni, il Caimano ormai sdentato non è più in grado di condiziona­re neppure i suoi dicasteri preferiti, tutti in mano ai nemici 5Stelle: alla Giustizia c’è Alfonso Bonafede, alle Telecomuni­cazioni Luigi Di Maio, all’Editoria Vito Crimi. Idem la Rai, guidata dall’ad Fabrizio Salini (indipenden­te, ma indicato dal M5S). Ai tempi del Caf, B. ricattava i governi e ne finanziava i leader. Dopo Tangentopo­li, per qualche mese, ne fu ricattato. Poi, dopo la discesa in campo, alternò periodi di comando (quelli dei suoi governi) a periodi di ricatto (quelli del centrosini­stra consociati­vo). Ora è di nuovo ricattato, o almeno così dice. Basta che il governo annunci norme di minima civiltà e buonsenso – tetti antitrust alla pubblicità in tv, rilancio della Rai, norme anti-corruzione, anti-prescrizio­ne, anti-conflitti d’interessi – perché si avverta nel mirino. Di tutto questo ha parlato l’altra sera ad Arcore con Salvini, l’unico alleato (ricattabil­e o meno, non si sa) che gli rimane al governo.

1993-2018. Il 22 gennaio 1993 è un sabato. Craxi, indagato da un mese, è prossimo alle dimissioni. Forlani e Andreotti lo seguiranno a stretto giro. Il governo Amato, l’ultimo del pentaparti­to, ha i giorni contati, poi arriverann­o i tecnici di Ciampi, infine le elezioni che vedono favorita la sinistra di Occhetto. Il Cavaliere non ci dorme la notte, anche perché ha tutte le aziende e quasi tutti i manager sotto inchiesta, alcuni in galera. Dice al suo consulente Ezio Cartotto: “A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. E poi ci sono i conti della Fininvest. Nelle riunioni dei Comitati Corporate al quartier generale di Milano2, manager e dirigenti del gruppo non nascondono l’allarme. Stretti intorno al capo – mentre Guido Possa, ex compagno di scuola e ora segretario particolar­e di B., annota parola per parola in accurati verbali che finiranno in mano al pool Mani Pulite – discutono per ore di prospettiv­e e numeri. Neri, nerissimi.

Ubaldo Livolsi, direttore finanziari­o, fa il punto: i debiti Fininvest ammontano a 4.550 miliardi, 700 in più rispetto al 1991. E il quadro è ancor più drammatico se si guarda alle necessità di cassa stagionali: 1.224 miliardi nei primi tre mesi

dell’anno. E aggiunge: “Il sistema bancario non è disposto ad aumentare ulteriorme­nte l’affidament­o nei nostri confronti (alcune banche, anzi, hanno chiesto a noi, come a tanti altri clienti, piccole ma significat­ive riduzioni dell’esposizion­e)... La situazione va considerat­a molto seria”. Il rischio concreto si chiama fallimento. Il 1° marzo Livolsi rincara la dose: “Basterebbe una sia pur lieve flessione delle entrate pubblicita­rie della television­e (non improbabil­e vista la recessione in atto e vista la presente sofferenza di qualche nostro investitor­e come la Curcio Editore e Ciarrapico) per porci in grosse difficoltà”. Prendi Rai, salvi Fininvest.

Anche Silvio B. l’uomo dal “sole in tasca”, stavolta è pessimista:

“In complesso la nostra television­e è un’azienda matura, con buona redditivit­à, che tuttavia lentamente si avvia al declino”. Bisogna inventarsi qualcosa. I suoi dirigenti suggerisco­no quelle più tradiziona­li: un piano di dismission­i per raccattare quattrini e rimborsare le banche. Ma lui non ci sente. Il 18 gennaio ’93 boccia la proposta di vendere “un’importante p ar te ci p az io ne ” di Telepiù ( che illegalmen­te possiede quasi per intero tramite vari prestanomi, in barba alla legge Mammì che gli consente un misero 10%): “Non è questo il momento, nonostante le difficoltà finanziari­e. La tv del futuro è quella che vende programmi”. E

il 22 febbraio affossa pure “l’operazione Ame-Sbe così come si sta configuran­do”, cioè il collocamen­to in Borsa di quote che la Silvio Berlusconi Editore detiene in Mondadori. Guai a “rinunciare al totale controllo di un gioiello”. Che fare allora? Ecco il suo piano, che lascia tutti con gli occhi sgranati e le bocche aperte: “L’unica, concreta, importante azione possibile a breve è quella di un accordo con la Rai: potrebbe arrivare a ridurre i costi di 300-350 miliardi l’anno. È urgente per questo intervenir­e

nel processo in atto di ridefinizi­one della struttura della Rai, per far sì che le massime responsabi­lità siano assunte da veri manager (con i quali sarebbe più agevole raggiunger­e un buon accordo) e prega Roberto Spingardi (capo del Personale Fininvest,

ndr ) di suggerirgl­i al riguardo alcuni nominativi di persone papabili ( congiuntam­ente a G. Letta)”. Traduzione: il padrone della Fininvest vuole scegliersi i dirigenti della Rai. Imbottire Viale Mazzini di manager “amici”, perché “tengano bassa” la programmaz­ione della concorrenz­a, dando un po’ di fiato alle sue boccheggia­nti tv.

Il tetto che scotta. Per legge, nella corsa contro il Biscione, il cavallo della Rai già parte con l’handicap: avendo il canone, deve rispettare un tetto pubblicita­rio più basso di quello della Fininvest. B. può inondare i suoi canali con un 18% di spot all’ora, la tv di Stato non può superare il 12. È uno dei tanti regali del Caf al Cavaliere: il canone Rai è fra i più bassi d’Europa e viene evaso da 3,5 milioni di utenti. Se vuole aumentare gli introiti, la Rai non può aumentare la pubblicità e deve investire enormi risorse per battere la Fininvest. Solo così riesce a invogliare gli inserzioni­sti a pagare i suoi spot più cari di quelli del Biscione. Più sale lo share, più costa uno spot, più soldi si incassano. Non solo. Chi pianifica una campagna pubblicita­ria preferisce acquistare spazi dal numero 1 sul mercato. E se, per ipotesi, può permetters­i un solo spot, non ha dubbi: lo prenota sulla Rai. Almeno finché batte la Fininvest.

Anche la Fininvest, però, per tenere il passo con la Rai, deve dissanguar­si. E non può più permetters­elo, con le banche a ll ’ uscio che le chiedono di rientrare. Ergo – ragiona B. – non c’è che un rimedio: mettersi d’accordo con la Rai, cioè con la concorrenz­a. Un disarmo bilanciato che porti entrambi i contendent­i ad abbassare gli investimen­ti, dunque la qualità e – quel che più conta – i costi. Per il momento il Cavaliere, essendo un privato cittadino, deve cercare un accordo con i partiti che controllan­o il servizio pubblico. Poi, quando diventerà lui

stesso un politico, anzi il capo del governo e dunque il padrone della Rai, farà tutto da solo. Proposta indecente.

Nell’attesa, Sua Emittenza mette in moto l’uomo dei momenti difficili: Gianni Letta, vicepresid­ente Fininvest e felpato mediatore dalle mille entrature nei palazzi romani. Al suo fianco, di supporto, c’è Angelo Codignoni, il manager che ha seguito la sventurata campagna di Francia con La Cinq e sarà presto protagonis­ta della nascita di Forza Italia. Ma la missione, se non è impossibil­e, poco ci manca. Nel guazzabugl­io di Tangentopo­li, con i segretari di partito e i ministri di Amato che si dimettono al ritmo di uno alla settimana fino alle dimissioni dell’esecutivo sostituito dai tecnici di Ciampi, di referenti politici si stenta a trovarne. Almeno a piede libero. Non solo: quel che resta del Parlamento tenta di recuperare un minimo di decenza presso l’o p in i on e pubblica inferocita con una riforma del Cda Rai: è la numero 206 del 25 giugno ’93, nata da un emendament­o di Nando dalla Chiesa, che affida non più ai partiti, ma ai presidenti di Camera e Senato il compito di nominare il nuovo Cda. Composto non più da 16 membri (6 Dc, 4 Pci-Pds, 3 Psi, 1 ciascuno ai tre partiti laici minori), ma da cinque “persone di riconosciu­to prestigio profession­ale e di notoria indipenden­za di compor-

È IL 1991: LIVOLSI SI PREOCCUPA

Le banche non sono disposte ad aumentare l’affidament­o nei nostri confronti. Una lieve flessione della réclame ci metterebbe in grosse difficoltà LA STRATEGIA DEL CAIMANO

È urgente intervenir­e nella struttura della Rai, per far sì che le responsabi­lità siano assunte da veri manager (più attenti agli accordi)

tamenti”. Inizia così l’èra dei “professori di area”. Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini scelgono Claudio Demattè, prorettore della Bocconi; l’amministra­tivista Feliciano Benvenuti; l’editrice Elvira Sellerio; il filosofo Tullio Gregory; il giornalist­a Paolo Murialdi. Il 13 luglio ’93 il Cda elegge presidente Demattè, che lancia subito due parole d’ordine: “Risanare i conti e delottizza­re”. Il dg è Gianni Locatelli, giornalist­a finanziari­o, area centrosini­stra.

A B. la nuova Rai dei “professori” fa paura: non ne conosce e non ne stipendia nessuno. A l l’improvviso sembrano avverarsi le fosche previsioni di Giuliano Ferrara, che soltanto otto mesi prima, in una delle riunioni mensili del sabato ad Arcore con i direttori di testata del gruppo Fininvest, aveva vaticinato con toni apocalitti­ci: “L’attuale difficoltà della Rai di rapporto con i partiti ci deve preoccupar­e: può darsi che in poco tempo ci troveremo a concorrere con una Rai non solo senza tetto di pubblicità, ma anche molto più libera dalla logica dei partiti e quindi rilegittim­ata”. E infatti in Viale Mazzini prendono piede profession­isti competenti e incontroll­abili: Angelo Guglielmi, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Franco Iseppi. Torna persino Beppe Grillo, per ben due serate in diretta, e senza censura.

Una carta da giocare, però, il Cavaliere ce l’ha. Anche la Rai è a un passo dal crac. I bilanci sono in rosso per 450 miliardi. A fine anno mancherann­o pure i soldi per le tredicesim­e. Così, nel settembre ’93, B. in persona si fa avanti con Demattè e Locatelli e butta lì la sua proposta indecente: un accordo di cartello per spartirsi non solo la pubblicità, ma anche l’au d i e nc e . Come annoterà nei suoi diari

Murialdi, i rappresent­anti delle due aziende ancora concorrent­i cominciano a incontrars­i per discutere come “ridurre le spese degli acquisti e di produzione sia della Rai che della Fininvest”.

Alla faccia della concorrenz­a. Ma il Cavaliere, mai contento,

chiede di più: la “ripartizio­ne dell’audience in parti uguali, nella misura del 45%”. Ricorda

Murialdi: “All’epoca la Rai totalizzav­a un’audience leggerment­e superiore a quella delle reti berlusconi­ane. E un punto di audience voleva dire all’incirca 20 miliardi di lire di introito pubblicita­rio”. Lo confermerà Demat

tè: “Tutto è partito da una necessità comune, quella di ridurre i costi. Una via per ridurli sarebbe stata indubbiame­nte quella di allentare la pressione concorrenz­iale. Per conquistar­e quel punto o due in più che avrebbero consentito il sorpasso nell’audience, Rai e Fininvest stavano spendendo oltre ogni ragionevol­e limite. Senonché la via proposta da Berlusconi era inaccettab­ile in un paese a economia di mercato: voleva che si raggiunges­se un accordo di ferro per dividerci in partenza le quote di audience. Se uno dei due superava la quota, doveva provvedere a scaricare il palinsesto... inserire programmi di bassa qualità e basso costo per permettere alla rete concorrent­e di riguadagna­re le quote perdute. Tecnicamen­te è possibile, ci sono degli specialist­i in grado di prevedere con esattezza millimetri­ca le capacità di ascolto di un certo programma. Ma tutto questo avrebbe comportato problemi sia di etica che di diritto antitrust assolutame­nte intollerab­ili”. Spotpoliti­k. Il 26 gennaio 1994 il Cavaliere svela, a reti unificate, il suo segreto di Pulcinella: “Scendo in campo”, “ho deciso di bere l’amaro calice”, “l’Italia è il Paese che amo” e via

fiabeggian­do. Il vero movente della sua improvvisa vocazione politica lo spiegheran­no, molto sinceramen­te, i suoi uomini più fedeli e devoti. Marcello

Dell’Utri: “Eravamo nel settembre 1993, Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse: ‘Marcello, dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo alle prossime elezioni’. Lui aveva provato in tutti i modi a convincere Segni e Martinaz- zoli per costruire la nuova casa dei moderati... ‘Vi metto a disposizio­ne le mie television­i’, aveva detto. Tutto inutile, e allora decise che il partito dovevamo farlo noi. Poi c’era l’aggression­e delle Procure e la situazione della Fininvest con 5.000 miliardi di debiti. Franco Tatò, all’epoca era l’amministra­tore delegato del gruppo, non vedeva vie d’uscita: ‘Cavaliere dobbiamo portare i libri in tribunale’... I fatti poi, per

fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come Angelo Rizzoli che, con l’inchiesta della P2, andò in carcere e perse l’azienda”. Giuliano Ferrara: “Sì, Berlusconi è entrato in politica per impedire che gli portassero via la roba”. E Fedele Confalonie­ri: “La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il prosciogli­mento (per prescrizio­ne, ndr) nel Lodo Mondadori!”.

Il 29 marzo 1994, all’indomani della vittoria elettorale, il neopremier B. s’impegna solennemen­te a risolvere il conflitto d’interessi, affidando le sue aziende a un fondo cieco ( blind trust). E giura: “Alla Rai non sposterò nemmeno una p ia n ta ”. Invece parte subito all’assalto di Viale Mazzini per costringer­e il Cda a dimettersi due anni prima della scadenza di legge. E spiega spudoratam­ente al Corriere che la Rai non deve fare concorrenz­a a Fininvest: “La Rai è un servizio pubblico, non dovrebbe curarsi di andare a raggiunger­e il massimo di ascolto, casomai coprire i vuoti che le tv commercial­i lasciano aperti”.

Il 26 giugno si riuniscono in gran segreto ad Arcore i manager di Publitalia (concession­aria pubblicita­ria del Biscione, capitanata da Marcello Dell’Utri) ed esaminano il piano triennale di risanament­o della Rai appena proposto da Demattè al ministro delle Poste, Giuseppe Tatarella (An). Il progetto prevede una serie di aumenti automatici del canone legati al costo dei programmi trasmessi e la crescita del 5% annuo del fatturato pubblicita­rio. E viene confrontat­o con un documento top

secret di 17 pagine elaborato dal Biscione: se Rai cresce ancora, Fininvest tracolla. Quindi i Publitalia Boys bocciano il piano Demattè: i vertici Rai – sostengono sdegnati gli uomini del Cavaliere – osano proporsi “come un concorrent­e commercial­e per gli operatori privati, in contraddiz­ione con la sua funzione istituzion­ale di servizio pubblico... Non è accettabil­e che la Rai si ponga un obiettivo di audience generalizz­ata del 45%... Il piano dovrebbe invece prevedere la significat­iva riduzione degli investimen­ti e, genericame­nte, del livello di spesa”.

Così i manager berlusconi­ani, nella residenza del capo del governo, decidono che deve fare la Rai: non l’aumento dei ricavi pubblicita­ri, ma il loro “contenimen­to”: “Si potrebbe imporre un tetto tra i 100 e i 1.100 miliardi di lire annui”. Più precisamen­te: “1.050 miliardi nel ’95 e 1.100 nel ’96”. Al resto provvedono gli altri uomini del Cavaliere: quelli che a Roma siedono sui banchi del governo, della Camera e del Senato. Letta è sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio. E Ferrara ministro dei Rapporti con il Parlamento.

Può darsi che in poco tempo ci troveremo una Rai non solo senza tetto di pubblicità, ma anche molto più libera dalla logica dei partiti

GIULIANO FERRARA I RICORDI DI MARCELLO

Nel settembre 1993, Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse: ‘Dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo’ IL CAVALIERE DIVENUTO PREMIER

La Rai è un servizio pubblico, non dovrebbe curarsi di andare a raggiunger­e il massimo di ascolto, casomai coprire i vuoti lasciati dalle tv commercial­i

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Fotogramma/ LaPresse Era il 1995 Confalonie­ri, Silvio e Ubaldo Livolsi. Sotto, Gianni Locatelli e Claudio Demattè
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Fotogramma FI: il primo congresso B. e Dell’Utri. A lato, il video della discesa in campo
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