Una retata anti golpe e la crisi se ne va
L’economia annaspa ma i “complici” di Gulen hanno sempre la priorità
Dopo
che il presidente turco Erdogan è riuscito a ottenere dal leader russo Putin il consenso alla creazione di una zona demilitarizzata nella sovrappopolata provincia siriana di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli, per evitare nuovi bombardamenti, molti paesi europei e gli Stati Uniti hanno elogiato la determinazione del sultano di fronte allo zar. Mentre i ministri degli Esteri britannico e tedesco ieri spendevano parole di apprezzamento nei confronti di Erdogan per aver allontanato l'ennesima catastrofe umanitaria, dentro i confini turchi è andata in scena l'ennesima purga.
Ottantacinque soldati in servizio sono stati arrestati per presunti legami con l'organizzazione terrorista FETO dell'ex imam Fethullah Gulen, da quasi vent'anni autoesiliatosi negli Usa. Secondo Erdogan e la magistratura turca, Gulen, che fu il mentore e l'alleato più stretto del presidente fino al 2013, avrebbe orchestrato il fallito golpe del 2016. Tra i militari arrestati ieri ci sono tre colonnelli, due tenenti colonnelli, sei comandanti di squadrone, tre capitani, 18 primi luogotenenti, un sottotenente e 77 sergenti.
DALLA NOTTE del fallito golpe sono finiti in carcere centinaia di militari. Ma l'attuale operazione potrebbe avere, secondo alcuni analisti, anche un secondo fine: distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica dalla crisi economica deflagrata durante l'estate e lungi dall'essere scongiurata.
La scorsa settimana, la decisione della Banca Centrale Turca di alzare i tassi di interesse portando il riferimento principale per il costo del denaro addirittura al 24%, facendo crescere nell'immediato del 5% sul dollaro la debolissima lira turca (per poi ridimensionarsi nel giro di qualche ora), non ha riportato la fiducia attesa ma ha aumentato la rabbia di Erdogan contrario a questa misura adottata dal- la BCT per tentare di bloccare l'inflazione galoppante arrivata a due cifre.
Gli economisti tuttavia avvertono che se la Turchia vuole evitare il ricorso a un prestito del Fondo Monetario Internazionale per arginare l'emorragia delle proprie riserve estere, deve procedere a un ulteriore rialzo. È per ora escluso che Erdogan possa accettarlo, dopo aver più volte criticato la logica del rialzo dei tassi di interesse come ciambella salvagente e attaccato pubblicamente l'indipendenza della Banca Centrale. Fatto che ha destato nuove preoccupazioni a livello internazionale perché è un altro segnale della deriva dispotica del presidente, che per far capire alle autorità monetararie chi comanda si è anche auto-nominato a capo del Fondo sovrano turco, costituito dopo il fallito golpe, mettendosi al fianco il genero Beirat Albayrak, l'attuale ministro del Tesoro e delle Finanze. Un altro problema dell'economia turca è la mancanza di un programma di sostegno fiscale a medio termine per banche e aziende. Erdogan inoltre ha “chiesto” alle autorità di controllo di investigare sull’attività del maggior partito di opposizione (Chp) nel consiglio di Isbank, il principale istituto di credito locale. La strategia economica e quella politica in Turchia ormai sono entrambe nelle mani del sultano.
Bloomberg ha dato notizia che il governo di Ankara si preparerebbe a presentare un piano di sostegno generale proprio per il sistema bancario al fine di scongiurare la mina dei non-perfoming loans (NPL), le sofferenze sui prestiti concessi, emersa con le peripezie della lira turca.