Il Fatto Quotidiano

Se si vuole togliere l’Ordine ai giornalist­i

- » GIOVANNI VALENTINI

“Non è mai una buona cosa mettersi contro la stampa”

(da “Luci nella notte” di Georges Simenon – Adelphi, 2005 – pag. 164)

Èvero che gli Ordini profession­ali derivano dalle corporazio­ni e che fu il fascismo a introdurli per alcune categorie, con la legge n. 897 del 1938. Ed è anche vero, come ha già ricordato nei giorni scorsi il direttore Marco Travaglio, che la loro abolizione è stata sostenuta da un grande liberale come Luigi Einaudi, oltre che dai radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino. Ma ciò non toglie che

“stralciare” l’ Ordine dei giornalist­i, istituito nel

1963, rappresent­a – anche al di là delle intenzioni – un segnale preoccupan­te contro il diritto all’informazio­ne che riguarda tutti i cittadini. Un avvertimen­to, una ritorsione o una rappresagl­ia, nei confronti di quel corpo intermedio o “quarto potere” a cui in ogni democrazia spetta il compito di controllar­e i poteri costituiti: quello legislativ­o, quello esecutivo e quello giudiziari­o.

Il sistema editoriale italiano, come abbiamo scritto più volte in passato, non è esente nel suo complesso da vizi, limiti e difetti: a cominciare dalla progressiv­a estinzione del cosiddetto “editore puro”, cioè l’editore per mestiere e passione civile che non ha interessi estranei da tutelare, né industrial­i né economici o finanziari. E la stampa, per dire i giornali, le television­i, le radio e ora anche i siti online, non è certamente immune da peccati, colpe e omissioni. Ma resta il fatto che nessun Paese democratic­o può farne a meno né può fare a meno dei giornalist­i, buoni o cattivi che siano.

COMINCIARE PROPRIO dall’ abolizione del loro Ordine profession­ale, dunque, equivale a intimidire un’intera categoria, a soffocarne l’autonomia e l’indipenden­za, esponendol­a ancor più alla pressione degli editori. Significa smantellar­e una funzione fondamenta­le per la difesa della democrazia. Al di fuori di una riforma organica di tutti gli Ordini – quello dei medici, degli avvocati, degli ingegneri, degli architetti e così via – diventa un attacco alla libertà d’informazio­ne, d’opinione e anche di critica, garantita dall’articolo 21 della Costituzio­ne.

Lo stesso Einaudi, pur essendo favorevole all’abolizione, diceva: “Gli Ordini possono anche rimanere per quelli che intendono iscriversi, l’importante è che venga eliminata l’obbligator­ietà dell’iscrizione ai fini dell’esercizio profession­ale”. Ed è proprio questo il punto. Un conto è abolire l’iscrizione obbligator­ia, come ipotizzava Einaudi, un altro conto è abolire un organo di autodiscip­lina che regola il comportame­nto dei suoi iscritti nell’esercizio delle loro funzioni, a tutela dei cittadini lettori e telespetta­tori, titolari del diritto all’informazio­ne. E in quanto tale, funziona anche da deterrente in forza delle sue carte deontologi­che, sulla privacy, sui diritti dei minori e dei malati.

Chi ormai ha quasi cinquant’anni di mestiere alle spalle può dire onestament­e che il nostro giornalism­o non sarebbe migliore senza l’Ordine profession­ale. Tanto più nell’era delle fake news, diffuse dalla comunicazi­one digitale all’insegna della post-verità: un genere di notizie false, propalate deliberata­mente a fini di disinforma­zione, che non hanno nulla a che vedere con quelle inesatte, imprecise o scorrette dei giornali o delle television­i. Tutto ciò non esclude che, insieme agli altri Ordini profession­ali, anche il nostro venga riformato o abolito, senza intenti intimidato­ri o persecutor­i. Se si indebolisc­e la libertà di stampa, si mettono a rischio tutte le altre libertà.

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