“Una storia senza nome”, un romanzo da sfogliare al cinema che si fa verità
Il nuovo film di Roberto Andò prende spunto dal misterioso furto della Natività del Caravaggio nel 1969 a Palermo
Èun film da leggere Una storia senza nome. È un romanzo da sfogliare al cinema. Pagina dopo pagina – fotogramma per fotogramma – c’è il dipanarsi di un racconto fatto col “trasi e nesci”. È “l’entra ed esci” di complicità con il lettore, ops, lo spettatore, e Roberto Andò – l’autore, più che un semplice regista in questo film – conosce bene questa metafora generosamente aperta a tutte le variabili del segno.
SOLO LA CRITICA cinematografica può, ovviamente, e Federico Pontiggia in questo è maestro, sentenzierà, ma qualcosa ancora può dire la letteratura quando le porti girevoli del pretesto – il furto nel 1969 a Palermo della Natività coi santi Lorenzo e Francesco d’Assisi del Caravaggio – diventano bivi a disposizione di un esercizio di interpretazione; affollato al punto che uscendo dalla sala, con Magritte – come con la pipa – possa dirsi “Questo non è un film”. Molte cose è questa pellicola, non una sola, come è proprio di ciò che si sottrae al nome. Il fatto per come fu, c’è: la mafia se lo rubò a suo tempo, il capolavoro. E ne avvolse il feticcio in tante di quelle trame – venduto, tagliato in pezzettini sparsi, bruciato, fatto mangiare dai porci – da confermare, nei pentiti che ne parlarono, l’incredibile maestria propria degli sceneggiatori. “Tragediatori”, per dirla con la lingua di un Totò Riina, sono i pentiti. E Andò – da demiurgo dell’ermeneutica plurale – se li prende tutti i suoi personaggi per tragediarli e farne la trama di tutte le trame: uno sceneggiatore senza fantasia chiede soccorso alla gosth writer proprio quando questa incappa nel misterioso suggeritore di una storia vera e senza nome che finisce al modo di quando non finisce mai.
Non è una matrioska questo film, non un gioco a incastri e neppure c’è la dissolvenza di rimando degli specchi. C’è piuttosto il riverbero del verosimile nella limpida pozza del veritiero perché è probabile che l’imprendibile latitante – Matteo Messina Denaro? – si sia fatto la plastica facciale, per come si legge nel film, e magari sia una delle più acclamate attrici di telenovele in Sud America.
COME in Operazione San Gennaro di Dino Risi anche i mafiosi che rubano il Caravaggio si fanno il segno della croce, tanti sono i giochi di complicità con il grande cinema – il produttore cinematografico colluso è pittato al modo di un Pietro Germi – ma è la letteratura, paragrafo dopo paragrafo, scena per scena, a dominare la sceneggiatura in virtù del ragionamento sempre sostenuto dai sospetti e dalle diffidenze, dell’abilità di azione corroborata dall’immaginare quel mondo dietro il mondo acquartierato in qualsiasi comò di un qualunque albergo.
La microspia vi mostra una donna in quella stanza. E quella, penserete, è l’am a nt e dell’imprendibile latitante. Ma con Magritte – “Quella non è un’amante”– incombe anche Jorge Luis Borges: lei è lui. L’amante di se stesso.