Il Fatto Quotidiano

La furbata di “Lady Fai”: il suo Burri messo all’asta

Capolavori in fuga Giulia M. Crespi tutela il patrimonio artistico italiano, ma intanto vende all’estero il prezioso quadro di sua proprietà

- » TOMASO MONTANARI

La superstar delle prossime vendite newyorches­i d’arte moderna brilla presso la casa d’aste Phillips: ed è una stella italianiss­ima, il Grande legno e rosso creato da Alberto Burri tra il 1957 e il 1959. Sale, in queste ore, la febbre per il record che il 15 novembre potrebbe stabilire: presentato con una stima tra i 10 e i 15 milioni di dollari, in molti si aspettano che si piazzi ben più su. Perché non solo quest’opera – lunga due metri e mezzo, e solenne come una moderna, umanissima pala d’altare – “è un esempio di serie A di uno dei periodi più celebrati di Burri” (così Hughes Joffre, di Phillips), ma è anche commercial­mente ‘vergine’: essendo stata esposta una volta sola (alla grande retrospett­iva del Guggenheim di New York nel 2015), ed essendo rimasta per oltre mezzo secolo presso l’illustre famiglia, i Crespi, che la acquistò dalla mitica galleria romana della Tartaruga, e che ora la mette in vendita.

COM’È POSSIBILE che un simile capolavoro abbia varcato i confini patrii senza che il ministero per i Beni culturali abbia mosso un dito? Il responsabi­le ha un nome e un cognome: Dario Franceschi­ni. L’ultimo “regalo” di quest’ultimo al patrimonio culturale italiano è stata la legge 124 del 2 agosto 2017, scritta letteralme­nte sotto dettatura della lobby dei mercanti d’arte. Tra altri seri danni alla tutela, questa norma ha innalzato da cinquanta a settant’anni la zona franca per l’esportazio­ne dell’arte contempora­nea: fino al giorno prima si poteva far uscire dall’Italia tutto ciò che era stato dipinto dopo il 1967, mentre dal giorno dopo è stato gettato nelle fauci del mercato internazio­nale un ventennio cruciale della produzione artistica italiana, quello dal 1947 al 1967. Eppure le cassandre (che sono antipatich­e, ma dicono la verità) non erano mancate: il 4 agosto 2017 un appello – firmato, tra gli altri, da Salvatore Settis, Lorenza Carlassare, Paolo Maddalena e da Italia Nostra – chiedeva a Sergio Mattarella di non firmare la legge, per manifesta “illegittim­ità costituzio­nale”, e perché avrebbe comportato “una perdita grave e immotivata, causata da una norma introdotta al solo scopo di favorire i mercanti d’arte che non dovranno più avere un’autorizzaz­ione (l’attestato di libera circolazio­ne) per trasferire all’estero quadri dipinti meno di settant’anni fa”. Il presidente Mattarella non rispose nemmeno: e così oggi perdiamo un pezzo fondamenta­le di un patrimonio particolar­mente difficile da difendere, quale la grande arte italiana del Dopoguerra.

Il Mibac, ora guidato da Alberto Bonisoli, sta studiando il modo di chiudere la falla, ma nel frattempo qualcuno si è precipitat­o ad approfitta­re di una tutela in ginocchio. Si era messo nel conto che l’avrebbero fatto mercanti senza scrupoli, collezioni­sti venali e palazzinar­i che usano i quadri per ripulire i loro sporchi denari. Ma davvero nessuno avrebbe potuto prevedere che il danno più serio l’avrebbe fatto la fondatrice e presidente onoraria del Fai, la signora Giulia Maria Crespi. Per cinquant’anni quel grande Burri ha infatti accolto, sullo scalone monumental­e, i visitatori di Casa Crespi, in corso Venezia a Milano: dove coronava una collezione sceltissim­a, che annovera tra l’altro i due celeberrim­i, monumental­i Canaletto. Non si riesce a credere che questa pugnalata al patrimonio culturale della Nazione sia stata inferta da chi ha fondato, e ancora presiede, un’associazio­ne che ha lo scopo di “tutelare e valorizzar­e il patrimonio d'arte e natura italiano, educare e sensibiliz­zare la collettivi­tà, vigilare e intervenir­e sul territorio”.

E ancora più sconcertan­te (anche se oggi perfettame­nte lecito) è il modo in cui il quadro è stato fatto uscire dall’Italia. Nello scorso aprile è sta-

LO “SCIPPO” GRAZIE ALLA NORMA Per i mercanti d’arte, niente più autorizzaz­ione per trasferire all’estero quadri italiani dipinti dopo il 1947

PREDICA BENE, RAZZOLA MALE “La signora Crespi potrebbe ripensarci, riportare l’opera a Milano e donarla a un museo pubblico. Per dare l’esempio”

ta presentata all’Ufficio Esportazio­ni di Venezia un’autocertif­icazione in cui la finanziari­a Il Gallione si dichiarava proprietar­ia del Burri e attestava che, avendo esso meno di settant’anni (ne ha infatti circa 60), rientrava nei fatidici vent’anni lasciati scoperti dalla legge di Franceschi­ni. Ora, il direttore del Gallione è Luca Paravicini Crespi, figlio di Giulia Maria, e la lettera di vettura che traccia l’avvenuta spedizione a Londra (prima tappa verso New York) dichiara che l’opera è stata prelevata a Milano, in corso Venezia 20: dunque, nessun dubbio sull’identità del Burri.

GRAZIE A FRANCESCHI­NI l’iter descritto è perfettame­nte legale: ma è anche profondame­nte sleale verso quegli organi della tutela che il Fai affianca e difende. Perché, avendo deciso di vendere il Burri (cosa triste, ma perfettame­nte legittima), la signora Crespi avrebbe potuto (ed, es- sendo lei, dovuto) rivolgersi a viso aperto al ministero per i Beni culturali, accettando la possibilit­à di un diniego e lasciando allo Stato la possibilit­à di acquistarl­o. Invece si è scelta la via dell’alienazion­e all’estero, per massimizza­re il profitto senza alcuno scrupolo culturale e morale: l’opera è stata esportata senza dichiarare esplicitam­ente il nesso storico con la famiglia Crespi. E soprattutt­o non è stata presentata a Milano: dove l’Ufficio Esportazio­ni avrebbe immediatam­ente riconosciu­to il ben noto Burri, e, sfruttando l’unica possibilit­à della legge, l’avrebbe bloccato per l’“interesse eccezional­e” che esso riveste anche a causa della sua storia collezioni­stica. Lo si è invece portato a Venezia: sperando di eludere gli organi di tutela, come è puntualmen­te accaduto. È la prassi seguita dai mercanti furbastri, che ben sanno come aggirare la legge e tenere in scacco un sistema di tutela ormai allo stremo: ma la sua adozione in un caso del genere è un fatto che lascia sgomenti.

In queste ore il ministero sta valutando le azioni per recuperare il Burri: e presto dovrà anche porsi il problema di vincolare tutto il resto di una collezione ormai evidenteme­nte a rischio, visto che non è mai stata notificata a causa di una ingenua fiducia. Certo, questa tristissim­a storia del declino italiano potrebbe ancora avere un finale a sorpresa: la signora Crespi potrebbe ripensarci, riportando il Burri a Milano e donandolo a un museo pubblico. Sarebbe un bel modo di fare ammenda: da parte di chi ha detto, e ripetuto mille volte, che “ci vuole l’esempio, e l’esempio deve venire dall’alto”.

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 ??  ?? Chi èGiulia Maria Crespi è un’imprenditr­ice. A metà degli anni Sessanta entra nella proprietà del Corriere della Sera. Soprannomi­nata la “zarina”, con la sua gestione il quotidiano virò a sinistra. Tra il ‘73 e il ‘74, vendette le sue azioni. È tra i fondatori e oggi presidente­ssa onoraria del Fondo per l’Ambiente Italiano
Chi èGiulia Maria Crespi è un’imprenditr­ice. A metà degli anni Sessanta entra nella proprietà del Corriere della Sera. Soprannomi­nata la “zarina”, con la sua gestione il quotidiano virò a sinistra. Tra il ‘73 e il ‘74, vendette le sue azioni. È tra i fondatori e oggi presidente­ssa onoraria del Fondo per l’Ambiente Italiano

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