Il Fatto Quotidiano

Il mio viaggio in Guatemala accanto al guerriglie­ro Raul

- ALESSANDRO DI BATTISTA

Raul, il buono con le armi Nei villaggi e nella giungla con l’erede della guerriglia Ma non sono diventato di sinistra, stare con gli ultimi è frutto di pura logica I bimbi sono felici anche se non esistono le fogne e l'unico edificio in muratura è la chiesa evangelica Uno dei siti archeologi­ci più affascinan­ti dove la giungla ha ormai soppiantat­o le piramidi maya

Guillermo Figueroa Santos, nome da guerriglie­ro Raul, è la persona più buona che conosca. Tredici anni fa, quando ero un ragazzo con la voglia di conoscere il mondo, Raul mi accolse a casa sua a Nuevo Horizonte, una comunità formata da ex-guerriglie­ri che dopo la firma degli accordi di pace con l'esercito guatemalte­co, decisero di vivere insieme coltivando la terra e la voglia di portare avanti la rivoluzion­e non più con le armi ma attraverso il lavoro collettivo. Arrivai in Guatemala dopo aver vinto un bando della Caritas. Non parlavo una parola di spagnolo e sapevo poco di questo piccolo Paese martoriato dalle ingiustizi­e e dalla miseria. Lasciai l’Italia pieno di entusiasmo e con una certa dose di superbia tipicament­e occidental­e della quale credo di non essere più affetto. Pensavo di poter insegnare qualcosa a quella gente, ma giorno dopo giorno, mi accorsi che erano loro a insegnare molto a me. Come parlamenta­re ho commesso errori, tuttavia sono riuscito a non commettere quello più grave: lasciarmi soggiogare dal Palazzo e dal distacco dalla realtà che porta con sé. A me il potere non ha mai suscitato grande fascino. Non che ne abbia avuto così tanto, tuttavia, quando è arrivata la possibilit­à di ricoprire ruoli rilevanti, è come se avessi sentito dentro di me la voglia di fuggirne e di ricacciarm­i nella più tangibile realtà. Qualcuno l'ha considerat­a una ritirata, io un investimen­to sulla mia libertà, sulla mia felicità e, perché no, sulla qualità di unamia possibile carriera politica futura.

Io devo tanto a Nuevo Horizonte, devo moltissimo alla famiglia Figueroa con la quale ho condiviso per mesi e mesi una condizione di vita non proprio agiata, devo moltissimo a Raul perché è stato soprattutt­o lui, insieme a mio padre e a Gianrobert­o, a farmi nascere la passione per la politica con la P maiuscola, quella che si può fare anche al di fuori di un ministero. Se non ho faticato troppo a lasciare il Palazzo è per via della vita che ho fatto prima di entrarvi, la stessa vita che sto vivendo adesso. Ed è per riconoscen­za che ho voluto portare Raul nella giungla dove si è nascosto per molti anni, dove la guerriglia aveva posto la retroguard­ia strategica, dove nacque la prima CP-R (Comunità Popolare in Resistenza) e dove la Chala, la sua compagna, anch’essa guerriglie­ra, diede alla luce Raulin, il loro primo figlio.

Siamo partiti all'alba da Nuevo Horizonte prendendo la strada per La Libertad, una delle cittadine più pericolose del Guatemala. È terra di conquista del narcotraff­ico, del latifondo, delle imprese petrolifer­e straniere e di gruppi di sicari collegati all’agro-business. Il conflitto armato guatemalte­co è finito, eppure, in certe zone del Paese, i morti si contano come negli anni della guerra, forse ancor di più. Qualche anno fa, proprio a La Libertad, un commando legato al cartello messicano degli Zetas, uccise e decapitò 27 contadini per lanciare un messaggio al proprietar­io della terra dove lavoravano, anch’egli, presumibil­mente, un trafficant­e di droga che voleva alzare troppo la testa. Negli anni della guerra civile, i paramilita­ri al servizio dell’esercito guatemalte­co per mandare messaggi alla guerriglia entravano nei villaggi indigeni e distruggev­ano tutto ciò che incontrava­no. I paramilita­ri non sono scomparsi, solo che oggi li pagano i narcos o alcune imprese private che hanno bisogno della testa di qualche leader indigeno per continuare a gestire terre e potere.

Da La Libertad abbiamo preso la carrettera a Bethel, una lunga strada sterrata che costeggia il Rio Usumacinta che in questo tratto segna il confine tra Messico e Guatemala. Qui le persone aspettano da sempre che venga asfaltata la strada, ma i lavori non partono mai. Se poi gli acquazzoni, copiosi durante la stagione delle piogge, aprono buche che sembrano crateri, ci pensano i narcos a mandare qualche camion di ghiaia. “Meno male che ci sono loro” è una frase che, se entri in confidenza con gli abitanti di questo pezzo di mondo, ascolti spesso. Dalla carrettera a Bethel partono un mucchio di stradine che raggiungon­o i villaggi più lontani. Su quella che va a Bonanza e poi ad Arbolito il ponte su un ruscello l’hanno fatto costruire proprio i narcotraff­icanti. I narcotraff­icanti sanno farsi voler bene dalle comunità rurali, regalano riso e fagioli, finanziano le feste patronali con qualche vitello, e consegnano farmaci indispensa­bili. Con quel che vendono uccidono, con quel che ricavano, a volte, provano a lavarsi la coscienza. I loro sicari sistemano chi si ribella, i loro denari sistemano le strade così da irrobustir­e il loro potere.

A Bethel c’è il posto di frontiera ma ci si fermano solamente gli occidental­i per farsi timbrare i passaporti prima di proseguire per il Chiapas. Di certo non vi si fermano le centinaia di salvadoreg­ni, honduregni o guatemalte­chi che entrano in Messico da illegali attraversa­ndo il fiume. Di fatto non c’è alcun controllo, a parte quello dei coyotes, i trafficant­i di uomini che organizzan­o gli esodi verso il Texas o la California come fossero un’agenzia di viaggio.

Bethel non è l’ultimo villaggio guatemalte­co prima della frontiera, qualche chilometro dopo c’è La Felicidad, una delle comunità più povere che abbia mai visto. Alla Felicidad i bimbi sono felici anche se non esistono le fogne, anche se metà del loro campo da calcio è venuto giù per una piena del fiume, anche se l’unico edificio in muratura è la chiesa evangelica. Almeno la terra qui è ricca, il mais cresce rigoglioso e le piante di banane sono robuste. Il cibo non manca, manca tutto il resto. Mancano i dottori, manca una corretta alimentazi­one, mancano le medicine. I farmaci quando arrivano sono carissimi, l’omeprazolo è come l’oro, le pillole le vendono sfuse perché chi ha lo stomaco bucato se ne può permettere solo un paio. I migranti passano per La Felicidad e non vedono l’ora di lasciare il Guatemala perché pensano che al di là dell’Usumacinta non potrà mai esserci una povertà così immorale. I coyotes non li perdono mai di vista, sono le loro galline dalle uova d’oro d’altronde. Per loro l’importante non è che raggiungan­o gli Stati Uniti, ma che non tornino indietro dimostrand­o di non avercela fatta. Se i migranti arrivano tardi alla Tecnica, l’ultimo villaggio guatemalte­co prima del fiume, si fermano la notte lì. I coyotes li piazzano nei piccoli hotel del paesino, li portano a mangiare nei ristoranti­ni che servono pollo fritto e li rassicuran­o sul fatto che l’indomani prenderann­o una barca e arriverann­o in Messico.

GLI STATI UNITI VENDEVANO ARMI A TUTTI

A La Tecnica abbiamo preso una lancia direzione Piedras Negras, uno dei siti archeologi­ci più affascinan­ti del Guatemala. È immerso nella selva, la giungla ha ormai preso possesso delle piramidi maya. L’ultima volta che Raul visitò il sito era il 1990, ci passò per raggiunger­e la CP-R dove viveva sua madre. Le CP-R erano accampamen­ti dove andarono a vivere molti guatemalte­chi minacciati dall’esercito. Vennero riconosciu­ti dal governo del Paese e non vennero mai attaccati grazie alla presenza di osservator­i internazio­nali e della Chiesa cattolica.

Per arrivare a Piedras Negras occorrono quattro ore di navigazion­e. Le scimmie urlatrici nelle ore calde del giorno vanno a bere sulla riva ma devono stare attente ai coccodrill­i. Ne avremmo incontrati a decine lungo il tragitto, io li fotografav­o, Raul mi diceva che durante gli anni della guerra li cacciavano per poterli mangiare. “La carne di coccodrill­o è bianca, sembra pollo ma con l’odore del pesce”. Raul mi indicò il punto esatto in cui, dal Messico, un’unità di guerriglie­ri faceva entrare provviste, uniformi, munizioni e armi. Le armi arrivavano anche dagli Stati Uniti. I fucili d’assalto M-16 partivano dalle stesse fabbriche prima di prendere strade differenti: alcuni carichi arrivavano a Puerto

Barrios, un porto sul mar Caraibico da dove, grazie alla ferrovia di proprietà della United Fruit Company, l’attuale Chiquita, raggiungev­ano Città del Guatemala; altri, attraverso la Selva Lacandona, entravano illegalmen­te in Guatemala.

A 14 ANNI NELLA GUERRIGLIA GRAZIE ALLA CAPITANA MARIA

Raul entrò nella guerriglia a 14 anni grazie alla Capitana Maria, una guerriglie­ra guatemalte­ca figlia di un latifondis­ta del caffè che non accettò mai di vedere il suo Paese sprofondar­e nella miseria. A 16 anni Raul riuscì a raggiunger­e Cuba dopo un lungo viaggio che lo vide passare prima a Città del Messico e poi a Managua dove aveva appena trionfato la rivoluzion­e sandinista. A Cuba ricevette un addestrame­nto in difesa personale e in tecniche di comunicazi­one. “A L’Habana si mangiava tanta carne, non avevo mai mangiato così tanta carne in vita mia, però non c’erano le tortillas di mais e non era facile per noi guatemalte­chi”. Tutti i fratelli e le sorelle di Raul hanno fatto parte della guerriglia, il più piccolo è morto a La Libertad durante uno degli ultimi combattime­nti prima della firma della pace. Raulin, suo figlio, è nato nella giungla e Raul, che in quel tempo si trovava sul fronte a Sayaxche lo vide per la prima volta dopo due mesi dalla nascita. Raulin è venuto con noi a Piedras Negras e ogniqualvo­lta suo padre raccontava le storie della guerriglia lo osservava come si osserva un eroe. Da Piedras Negras abbiamo preso un sentiero che porta al Porvenir, l’accampamen­to dove abbiamo passato la notte. Abbiamo fatto una piccola deviazione, siamo entrati nella giungla più fitta. Raul voleva mostrarmi quanto fosse difficile vivere là dentro tra liane che sembrano serpenti e milioni di zanzare, gli animali più pericolosi della selva. Raul per me è un esempio, non perché ha preso in mano un fucile, ma perché ha lottato tutta la vita affinché la povertà immotivata in un Paese bagnato da due oceani, ricco di oro, petrolio e dalla terra fertile, venisse sconfitta. E ha lottato in prima persona per eliminare quelle ingiustizi­e che ancora attanaglia­no il suo Paese. Il Guatemala è la perla del Centro America, centinaia di migliaia di turisti vi arrivano ogni anno. Visitano Tikal, fanno incetta di artigianat­o locale al mercato di Chichicast­enango, scalano i vulcani e ammirano la bellezza coloniale di Antigua. Raramente si rendono conto del livello di miseria del Paese. Si indignano quando vedono bambini costretti a lavorare per la strada, provano disgusto per chi si fa lustrare le scarpe da chi dovrebbe giocare all’asilo, ma non si rendono conto che i loro genitori non sono sfruttator­i, ma uomini e donne disperati che non sanno come riempire gli stomaci dei figli. In Guatemala la metà dei bambini sotto i 5 anni soffre di ritardi causati dalla denutrizio­ne.

Se dal Petén, la regione più settentrio­nale del Paese, si prende la strada per Cobán, la città più importante della regione dell’Alta Verapaz, si costeggia, oltre l’oleodotto costruito dalla Perenco, una multinazio­nale petrolifer­a che opera in mezzo mondo, centinaia di minuscoli campi di mais. Gli indigeni coltivano dove possono, anche sul ciglio della strada, dove si rischia di essere investiti dalle auto durante il raccolto. La popolazion­e indigena vive tutt’oggi ai margini della società. Eppure sono loro i legittimi padroni di quelle terre. Dovrebbero essere loro e soltanto loro i protagonis­ti del loro futuro, così come gli afghani, per parlare di una guerra a noi più vicina.

Raul è la persona più buona che abbia mai conosciuto. Dopo la firma degli accordi di pace ha pensato di continuare la rivoluzion­e a modo suo. Lo fa lavorando e mettendo da parte il denaro sufficient­e per far studiare i suoi figli; lo fa tenendosi lontano dall’alcool, la principale piaga che colpisce il Centro America; lo fa, lui che non ha avuto la fortuna di studiare, provando a scrivere un libro sul conflitto armato guatemalte­co. A me la guerra fa schifo, ma ancor più schifo mi fanno coloro che, nel corso dei secoli, hanno costretto la povera gente a combattere. In Europa ci sentiamo fortunati, pensiamo di vivere in pace. Ascoltiamo conduttori Tv tessere le lodi dell’Unione europea in virtù della pace che ha prodotto. Ma dove? E che tipo di pace? Non erano bombe quelle sganciate su Belgrado, a poche centinaia di chilometri dal Mar Adriatico, con la compiacenz­a di un governo di sinistra? Non sono guerre quelle dannatissi­me missioni militari mascherate da operazioni di peace-keepingtan­to per aggirare, come sostiene Massimo Fini, l’articolo 11 della Costituzio­ne italiana? Non è guerra quella che si è combattuta in Libia per soddisfare la sete francese di petrolio? Non provoca morte e disperazio­ne quel capitalism­o finanziari­o e quel libero mercato che libero non è e che produce ogni giorno un accentrame­nto di ricchezze in poche mani che non si era visto neppure nelle più inique monarchie? E non sono collaboraz­ionisti quei sicari della libera informazio­ne che si scandalizz­ano più per lo spread che per la povertà dilagante?

IL PAESE CON IL MIGLIOR CAFFÈ DEL MONDO BEVE SOLO NESTLÉ

Chi legge questo reportage penserà che io abbia preso posizioni di sinistra. Io non credo più che destra e sinistra siano categorie capaci di interpreta­re le pulsioni politiche, sociali ed esistenzia­li degli esseri umani e trovo avvilente che il dibattito politico in Italia sia ritornato a battere su questo punto. La battaglia del secolo sarà tra chi si vuole riprendere quote di sovranità e chi invece continua a volerle cedere a organizzaz­ioni sovranazio­nali che stanno distruggen­do i diritti economici e sociali delle popolazion­i.

A Cobán le terre migliori sono in mano a famiglie tedesche, molte delle quali fuggite dalla Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Vi coltivano il caffè migliore del mondo eppure in Guatemala gli indigeni, quando se lo possono permettere, bevono solo disgustose brodaglie che si ottengono mischiando polveri della Nestlé con acqua spesso contaminat­a. Stare dalla parte delle popolazion­i indigene significa essere di sinistra? Per me si tratta solo di logica. Era logico per Raul prendere la strada della selva come è logico adesso, per lui, far di tutto affinché i figli possano andare all’università. L’università ufficiale, non quella del crimine presente nei quartieri caldi o nelle carceri del Paese. Perché in Guatemala si è firmata la pace nel 1996, ma la guerra esiste ancora. La combattono i narcos tra di loro; la combattono i latifondis­ti corrompend­o la classe politica per ottenere il permesso di disboscare uno degli ultimi polmoni del continente per potervi piantare caffè, canna da zucchero o palma africana; la combattono le pandillas, le bande delle periferie delle città, per accaparrar­si i ragazzini più disperati e trasformar­li in sicari senza paura. In mezzo al fuoco incrociato vivono i più poveri del Centro America, gli indigeni, i quali oggi hanno finalmente diritto a parlare la loro lingua ma non a coltivare la loro terra.

La perla del Centro America, i turisti vi arrivano ogni anno Raramente si rendono conto della miseria Le terre migliori sono in mano ai tedeschi fug giti dopo la Seconda guerra mondiale

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Indigeni Tra i villaggi poveri del Guatemala dove manca tutto
 ??  ?? Indigene All’uscita di una chiesa, spesso l’unica presenza in muratura nei poveri villaggi guatemalte­chi dove manca di tutto, anche le fogne
Indigene All’uscita di una chiesa, spesso l’unica presenza in muratura nei poveri villaggi guatemalte­chi dove manca di tutto, anche le fogne
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Simboli Murales nel villaggio con accanto la figura di Emiliano Zapata. L’evocazione della rivolta indigena contro la dominazion­e è ancora forte nel Paese che confina con il Messico e con la sua regione più zapatista, il Chiapas

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