Il Fatto Quotidiano

Guerre di carta (stampata) e guerre di potere

- » GIOVANNI VALENTINI

“Il giornalism­o profession­ale ha di fronte a sé la sfida più ardua: produrre informazio­ne di qualità per società prive, in prospettiv­a, di vere koinè, di culture e lingue comuni, riconoscib­ili e legate da valori condivisi”

(da “La guerra delle parole” di Vittorio Meloni Laterza, 2018 – pag. 188)

Gli editori di giornali, in Italia e nel resto del mondo, sono quelli che sono. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di “editori puri”, imprendito­ri che amministra­no le loro aziende per produrre notizie e nel contempo fare profitti. Ma ormai, e specialmen­te nel nostro Paese, sono per lo più “impuri”, vale a dire imprendito­ri o finanzieri che hanno altri interessi economici da curare, estranei all’editoria.

Anche i giornalist­i hanno i loro difetti e le loro colpe, più o meno come tutte le altre categorie: avvocati, medici, ingegneri, architetti e così via. Sono dipendenti degli editori o a volte freelance. Ma hanno (finora) un loro Ordine profession­ale a cui rispondono e un codice deontologi­co da rispettare, oltre alla Federazion­e nazionale della Stampa e al comitato di redazione – una doppia rappresent­anza sindacale, interna ed esterna – che all’occorrenza li difendono. E comunque, il loro rapporto di lavoro subordinat­o è mediato dalla figura del direttore responsabi­le, l’anello di darwiniana memoria tra l’uomo e la scimmia (ognuno può scegliere la scimmia, fra la proprietà e la direzione). Non sono quindi tutti “schiavi” dell’editore, scriba o servi sciocchi, a meno che non accettino più o meno consapevol­mente di esserlo, rinnegando la propria autonomia e la propria indipenden­za. Ed eventualme­nte, a parte la coscienza profession­ale, ne rispondono ai lettori, ai telespetta­tori o ai radioascol­tatori.

FATTE QUESTE PREMESSE, si può dire allora che la “guerra ai giornali” – e in particolar­e alle testate principali del gruppo Gedi, cioè il quotidiano Repubblica e il settimanal­e L’Espresso – dichiarata dal M5S contro di loro, è in realtà una guerra di carta che rischia di diventare una guerra di potere. Forse può anche servire a screditarl­i e a indebolirl­i ulteriorme­nte, ma è improbabil­e che li danneggi sul piano della diffusione e delle vendite più di quanto già non patiscano al momento. E in ogni caso, questo non sarebbe un obiettivo legittimo da parte di un Movimento o di un partito che per di più detiene la maggioranz­a in Parlamento e ha responsabi­lità di governo.

Non spetta certamente alle forze politiche “migliorare” i giornali, come recrimina qualche “pietromicc­a” dall’altra parte della barricata, salvo poi riconoscer­e contraddit­toriamente che non compete loro un tale compito. Toccherebb­e semmai al Parlamento e al governo fissare le condizioni all’interno delle quali gli editori possono fare liberament­e gli editori e i giornalist­i i giornalist­i, nell’interesse primario dei cittadini che sono i legittimi titolari del diritto all’informazio­ne. Per esempio, introducen­do un moderno Statuto dell’editoria; stabilendo che una grande industria o un grande gruppo finanziari­o non possono essere proprietar­i di testate giornalist­iche; limitando e riducendo le maxi-concentraz­ioni; vietando i conflitti di interessi, nella carta stampata, nella radiotelev­isione e anche sulla rete; regolando le quote della raccolta pubblicita­ria, in modo da tutelare il pluralismo dell’informazio­ne e la libera concorrenz­a.

In attesa di una tale “rivoluzion­e copernican­a”, deve restare fermo però il principio che in tutte le democrazie sono i giornali che criticano i politici e non viceversa. È solo nei regimi autoritari che accade il contrario.

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