Il Fatto Quotidiano

C’è uno scontro di valori dietro la guerra tra politica e mercati

- » MARCO PONTI

in generale accettato che esistano dei meta-valori, o valori sovraordin­ati, al voto, pur formalment­e democratic­o: non sembra si possano moralmente accettare voti che si esprimano contro la democrazia stessa, o contro la tutela delle minoranze, o contro la separazion­e dei poteri, o contro la libera informazio­ne. Questi meta- valori sono in qualche modo precondizi­oni per la democrazia stessa, almeno nelle sue radici occidental­i. A nessuno piace molto il modello di “democrazia guidata”, pur teorizzato da molti regimi asiatici. E quasi tutti i dittatori oggi fanno elezioni, spesso formalment­e libere, e le vincono tranquilla­mente. Utile ricordare per il passato il caso dell’Algeria, dove il partito islamista aveva come programma di abolire la democrazia. Non fu molto diverso il caso del nazismo in Germania. Oggi abbiamo Erdogan, Al Sisi e Putin che vincono trionfalme­nte.

MA FORSE C’È da chiedersi se vi siano anche meta- valori nella sfera economica. Già un certo grado di indipenden­za delle banche centrali da alcuni (in particolar­e dall’Unione europea) è considerat­a un meta-valore, per impedire ai politici di stampare denaro per ragioni di consenso creando iperinflaz­ione. Moralmente si può avere come programma politico di non pagare i debiti dello Stato (più realistica­mente, gli interessi)? Formalment­e di certo, e sostanzial­mente sì, ma solo se tali debiti sono ritenuti ingiusti, cioè di fatto non dovuti (si potrebbe citare ancora il debito tedesco imposto dai vincitori a Versailles dopo la prima guerra mondiale, imposizion­e che contribuì a generare il nazismo). Siamo oggi in questo caso? Sembra davvero difficile affermarlo: i governi italiani per ragioni di consenso hanno sempliceme­nte speso sempre molto di più di quanto incassavan­o con le tasse (un Keynes cinicament­e manipolato forniva facili alibi). Anche in Grecia andò così, e l’argomento che le banche tedesche finanziaro­no allegramen­te questo irresponsb­ile comportame­nto non ne diminuisce certo il grado di cinismo. Il premier greco Alexis Tsipras è un caso esemplare: nel 2015 valutò le conseguenz­e per i greci di un default, e decise che pagare era il male minore (tutte le anime belle gridarono allora al tradimento, perchè ovviamente il costo sociale fu molto elevato). Nessun elettore adeguatame­nte informato voterebbe per un default, e nemmeno per una politica che rischi seriamente il default. Si pensi ai costi sociali del regime di Maduro in Venezuela, o ai ripetuti default delle politiche populiste argentine. Non si hanno casi di default finiti bene. Pagano sempre i più poveri, cioè i meno informati e i meno mobili. I ricchi scappano in tempo, o fanno scappare i loro soldi. E i due terzi del nostro debito pubblico sono in mano a risparmiat­ori italiani, molti dei quali piccoli.

Silvio Berlusconi ha sempre vinto con lo slogan “Meno tasse e più pensioni”, più “grandi opere per tutti”. In Italia non sono ammessi referendum con contenuti esplicitam­ente fiscali. Perché, se il popolo è sovrano? Per un fenomeno noto come free rid i ng . Quanti voterebber­o contro un referendum berlusconi­ano che chiedesse nella sostanza “volete più servizi e meno tasse?”. Ma forse nemmeno sono consigliab­ili referendum fiscali mascherati, come è stato quello per l’acqua pubblica del 2011, che ha fatto credere ai allegri votanti che la socialità di un servizio stesse nel suo modo di produzione, e non nelle condizioni di prezzo e qualità a cui questo è erogato, che dipendono solo dalle priorità politiche. Perché allora non anche case prodotte da soggetti pubblici, o elettricit­à, o farmaci, o beni alimentari? Si tratta di beni certo non meno essenziali.

Oggi per far tornare i conti, “scommetter­e” su elevati tassi di crescita, nel contesto italiano appare rischioso. D’altronde realizzare tassi di crescita elevati, dati i livelli di spesa in deficit decisi, è l’unico modo per fare in modo che chi ci comprerà il debito, cioè gli italiani stessi e gli stranieri che finora lo hanno comprato, non ci chiedano tassi troppo elevati.

L’Europa è solo il dito che indica il problema, la luna è il costo del debito. Prendersel­a con il dito non sembra una grande idea. Perché questa scommessa sulla crescita appare rischiosa? Perché lo scenario esterno (sul quale non possiamo agire) non è favorevole: fine del quantitati­ve easing, una contrazion­e mondiale degli scambi grazie al sovranista Trump, il rialzo dei prezzi del petrolio. Poi la manovra in deficit per la crescita punta essenzialm­ente sui consumi interni, ma ci sono rischi più che concreti che aumentino invece i risparmi invece dei consumi, data l’insicurezz­a sulle pensioni future. Comunque poi una quota dei consumi è destinata a generare maggiori importazio­ni.

Il nostro sistema industrial­e infine non brilla certo nel complesso di livelli di innovazion­e straordina­ri. Cioè questa scommessa sulla crescita sembra moralmente discutibil­e, perché ad alto rischio: chi pagherà se va male? Suona un po’come esortare un povero a giocare d’azzardo per risolvere i propri problemi. E certo oltre l’Europa anche Carlo Cottarelli ha ragione a ricordarce­lo. È da troppo tempo evidente che indebitars­i crea consenso, pagare i debiti molto meno... È davvero questa buona democrazia? O vale la battuta di Hillary Clinton all’augusto marito: “It’s the economy, stupid”?

Nessun elettore adeguatame­nte informato vota per il default e per politiche che creano il rischio

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