Il Fatto Quotidiano

Burri & C: “furti” a regola d’arte

Patrimonio artistico Ultima è la legge Franceschi­ni che regala altri 20 anni di mercato libero: ma - tra commi, piccole corruzioni e banche svizzere - le opere d’arte finite all’estero sono una galleria infinita

- » TOMASO MONTANARI

Il monumental­e Alberto Burri che ha lasciato casa Crespi, e l’Italia, salutato da un’esplosione di servo encomio, è solo l’ultimo di una lunga serie di capolavori sottratti al “patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9 Cost.). Una tappa simbolica di questo smontaggio risale al 1753, quando la Madonna Sistina di Raffaello, conservata dai monaci di San Sisto a Piacenza, fu venduta ad Augusto III di Sassonia e prese la via di Dresda. “Di questo bel servizio i Piacentini hanno da ringraziar­e la vile cupidigia dei loro Benedettin­i del XVIII secolo”: così, un secolo dopo, il grande conoscitor­e Giovanni Morelli. Il copione sarà poi sempre quello: il denaro che spinge alla decisione, e poco dopo (svanito il denaro) il (vano) pentimento collettivo per una perdita irrimediab­ile.

Il monumental­e Alberto Burri che ha lasciato casa Crespi, e l’Italia, salutato da un’esplosione di servo encomio, è solo l’ultimo di una lunga serie di capolavori sottratti al “patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9 Cost.). Una tappa simbolica di questo smontaggio risale al 1753, quando la Madonna Sistina di Raffaello, conservata dai monaci di San Sisto a Piacenza, fu venduta ad Augusto III di Sassonia e prese la via di Dresda. “Di questo bel servizio i Piacentini hanno da ringraziar­e la vile cupidigia dei loro Benedettin­i del XVIII secolo”: così, un secolo dopo, il grande conoscitor­e Giovanni Morelli. Il copione sarà poi sempre quello: il denaro che spinge alla decisione, e poco dopo (svanito il denaro) il (vano) pentimento collettivo per una perdita irrimediab­ile.

1934: il “liberi tutti” deciso dal regime fascista E Madrid ringrazia per la “Santa Caterina”

Questa continua contesa tra proprietar­i e interesse generale è sfociata raramente in scontri aperti: più spesso si nutre di sotterfugi, furbizie, dichiarazi­oni reticenti, piccole e grandi corruzioni. In qualche occasione, tuttavia, collezioni­sti e mercanti hanno avuto la forza di imporre accordi o norme che facevano saltare, per ambiti o periodi limitati, la tutela. Se oggi facciamo i conti con la legge, chiesta dai mercanti e accolta da Dario Franceschi­ni, che lascia al mercato vent’anni di produzione artistica italiana e introduce la letale autocertif­icazione del valore venale dell’opera, nel 1934 fu un infame Regio Decreto a abolire il fedecommes­so Barberini (e cioè l’obbligo di tenere insieme la collezione senza venderla), consentend­o ai discendent­i di Urbano VIII di alienare opere clamorose: fu così che il regime fascista ci fece perdere la Santa Caterina di Caravaggio, oggi nella Collezione Thyssen a Madrid, o la Morte di Germanico di Nicolas Poussin, finita a Minneapoli­s. È invece l’Italia democristi­ana a impantanar­si nello smembramen­to della collezione Contini Bonacossi. Nel 1969 lo Stato, in cambio della donazione di alcune opere, accettò di togliere per dodici anni il vincolo su questa strepitosa raccolta, messa insieme dall’antiquario più importante del primo Novecento italiano: perdemmo così capolavori rarissimi, come la Natura morta di Francisco de Zurbarán, prontament­e acquistata dal Norton Simon Museum di Pasadena, in California. Fu “un colossale errore – scrisse Federico Zeri – : lo Stato non avrebbe dovuto prendere in consideraz­ione la proposta”. Sarebbe stato meglio, cioè, rinunciare ad avere alcune opere anche importanti nelle collezioni pubbliche pur di mantenere intera e in Italia una grande collezione privata: una convinzion­e che è il frutto della nostra storia culturale. Mentre Napoleone spogliava l’Italia delle opere più insigni si comprese che “il paese stesso è il museo” e che quei pezzi straordina­ri sarebbero stati incomprens­ibili una volta “lontani dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso” (Antoine Quatremère de Quincy, 1796). Molto tempo dopo Pier Paolo Pasolini estese ancora questa visione contestual­e: “Quel che va difeso è tutto il patrimonio nella sua interezza. Tutto, tutto ha un valore: vale un muretto, vale una loggia, vale un tabernacol­o, vale un casale agricolo. Ma la gente non vuol saperne: hanno perduto il senso della bellezza e dei valori. Tutto è in balìa della speculazio­ne” (1974). Esattament­e per questo si è sempre pensato che fosse giusto e saggio far rimanere in Italia anche opere private che lo Stato non può sul momento comprare, ma che, in tempi lunghi, magari lunghissim­i, finiranno col divenire pubbliche: le limitazion­i, anche pesanti, che i vincoli impongono alla proprietà privata sono motivate dalla prospettiv­a, non importa quanto lontana, di “una fruizione ampia ed effettiva del valore culturale custodito dal bene” (così Massimo Severo Giannini).

Legale e illegale: dalle licenze di esportazio­ne concesse “alla leggera” ai soliti tombaroli

Questa la teoria: la pratica è una continua via crucis. Gli scarsi mezzi e lo scarsissim­o personale degli uffici esportazio­ne delle Soprintend­enze e gli enormi appoggi legali, le furbizie e la spregiudic­atezza di collezioni­sti e mercanti rendono la quotidiana difesa del patrimonio una battaglia campale. Intanto, un flusso continuo di opere esce clandestin­amente dal Paese: le opere rubate dai tombaroli o smurate dalle mille chiese monumental­i chiuse (si pensi a Napoli), e quelle nemmeno mai conosciute che passano direttamen­te dal chiodo del palazzo avito al baule dell’automobile che varca la frontiera. E poi ci sono quelle che escono legalmente, ottenendo contro ogni ragionevol­ezza la licenza di esportazio­ne e finendo al centro di polemiche e talvolta di inchieste. Nel 2011una tavola bolognese di fine Trecento, firmata da Simone dei Crocifissi, descritta dalle fonti fin dal Seicento e di riconoscib­ile provenienz­a ecclesiast­ica – vale a dire un’opera che andava assolutame­nte bloccata – finì legalmente

Raffaello, Caravaggio & C. La “Madonna Sistina” venduta ai tedeschi, poi le collezioni smembrate e gli uffici esportazio­ne stranament­e “distratti”...

all’asta a Vienna. Nel 2013 a New York, Christie’s batte “uno dei più importanti ritratti del Rinascimen­to ancora in mani private”: uno strepitoso dipinto di un Bronzino ancora immerso nello stile del suo visionario maestro, Pontormo. Fino almeno al 1956 il dipinto era attestato nella collezione fiorentina dei principi Corsini, e sicurament­e era stato restaurato in Toscana nel 2010. Nel 1996 sei membri della famiglia erano stati processati per aver esportato clandestin­amente opere assai preziose attraverso triangolaz­ioni con banche svizzere e case d’asta londinesi. Mentre gli antiquari che avevano portato all’estero le tele (tra le quali un quadro attribuito, a torto, a Rubens finito al Getty di Los Angeles) vennero condannati, gli aristocrat­ici furono assolti perché si ritenne inefficace il vincolo.

La furbata: nell’indicazion­e del valore del quadro manca uno zero per avvicinars­i a quello reale...

Nello stesso 2013 il Metropolit­an Museum di New York acquistò un meraviglio­so quadro di Ribera che era nella casa di Perugia in cui si trovava fin da metà Seicento: anche in quel caso – come per il Burri Crespi – a dare il via libera era stato l’ufficio esportazio­ne di Venezia. È dell’anno scorso un altro caso inquietant­e, e passato sotto silenzio: ancora il Metropolit­an ha acquistato dall’antiquario di Monaco Paul Smeets un capolavoro di Simon Vouet fino a poche settimane prima appeso in Palazzo Patrizi, in Piazza San Luigi dei Francesi a Roma. Sempre al 2017 risale un caso che per certi aspetti ricorda quello del Burri. La galleria milanese Robilant Voena vende alla Frick Collection di New York un superbo ritratto di Camillo Borghese, il fratello di Paolina e cognato di Napoleone dipinto da François Gérard, mirabile allievo di David. Ma tutto si impantana in tribunale perché il Ministero per i Beni culturali revoca la libera uscita quando si accorge che nella domanda di esportazio­ne i mercanti non avevano esplicitat­o il soggetto del quadro e avevano indicato un valore a cui mancava uno zero per avvicinars­i a quello reale.

La partita a scacchi tra interesse privato e ben comune continua: se l’Italia è, nonostante tutto, così ricca di bellezza è perché, da secoli, quella partita è aperta.

PASOLINI Quel che va difeso è tutto il patrimonio nella sua interezza Tutto, tutto ha un valore: vale un muretto, vale una loggia, vale un casale agricolo

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 ??  ?? “Vile cupidigia dei Benedettin­i” Al centro la “Madonna Sistina” di Raffaello venduta dai monaci ad Augusto III. Sopra un Ribera acquistato dal Metropolit­an Museum di New York nel 2013
“Vile cupidigia dei Benedettin­i” Al centro la “Madonna Sistina” di Raffaello venduta dai monaci ad Augusto III. Sopra un Ribera acquistato dal Metropolit­an Museum di New York nel 2013
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“Saccheggio” continuoIn alto un Simon Vouet comprato nel 2017 dal Metropolit­an. E ancora: “Santa Caterina” di Caravaggio finito nella Collezione Thyssen; La “Natura morta” di Zurbarán

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