Burri & C: “furti” a regola d’arte
Patrimonio artistico Ultima è la legge Franceschini che regala altri 20 anni di mercato libero: ma - tra commi, piccole corruzioni e banche svizzere - le opere d’arte finite all’estero sono una galleria infinita
Il monumentale Alberto Burri che ha lasciato casa Crespi, e l’Italia, salutato da un’esplosione di servo encomio, è solo l’ultimo di una lunga serie di capolavori sottratti al “patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9 Cost.). Una tappa simbolica di questo smontaggio risale al 1753, quando la Madonna Sistina di Raffaello, conservata dai monaci di San Sisto a Piacenza, fu venduta ad Augusto III di Sassonia e prese la via di Dresda. “Di questo bel servizio i Piacentini hanno da ringraziare la vile cupidigia dei loro Benedettini del XVIII secolo”: così, un secolo dopo, il grande conoscitore Giovanni Morelli. Il copione sarà poi sempre quello: il denaro che spinge alla decisione, e poco dopo (svanito il denaro) il (vano) pentimento collettivo per una perdita irrimediabile.
Il monumentale Alberto Burri che ha lasciato casa Crespi, e l’Italia, salutato da un’esplosione di servo encomio, è solo l’ultimo di una lunga serie di capolavori sottratti al “patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9 Cost.). Una tappa simbolica di questo smontaggio risale al 1753, quando la Madonna Sistina di Raffaello, conservata dai monaci di San Sisto a Piacenza, fu venduta ad Augusto III di Sassonia e prese la via di Dresda. “Di questo bel servizio i Piacentini hanno da ringraziare la vile cupidigia dei loro Benedettini del XVIII secolo”: così, un secolo dopo, il grande conoscitore Giovanni Morelli. Il copione sarà poi sempre quello: il denaro che spinge alla decisione, e poco dopo (svanito il denaro) il (vano) pentimento collettivo per una perdita irrimediabile.
1934: il “liberi tutti” deciso dal regime fascista E Madrid ringrazia per la “Santa Caterina”
Questa continua contesa tra proprietari e interesse generale è sfociata raramente in scontri aperti: più spesso si nutre di sotterfugi, furbizie, dichiarazioni reticenti, piccole e grandi corruzioni. In qualche occasione, tuttavia, collezionisti e mercanti hanno avuto la forza di imporre accordi o norme che facevano saltare, per ambiti o periodi limitati, la tutela. Se oggi facciamo i conti con la legge, chiesta dai mercanti e accolta da Dario Franceschini, che lascia al mercato vent’anni di produzione artistica italiana e introduce la letale autocertificazione del valore venale dell’opera, nel 1934 fu un infame Regio Decreto a abolire il fedecommesso Barberini (e cioè l’obbligo di tenere insieme la collezione senza venderla), consentendo ai discendenti di Urbano VIII di alienare opere clamorose: fu così che il regime fascista ci fece perdere la Santa Caterina di Caravaggio, oggi nella Collezione Thyssen a Madrid, o la Morte di Germanico di Nicolas Poussin, finita a Minneapolis. È invece l’Italia democristiana a impantanarsi nello smembramento della collezione Contini Bonacossi. Nel 1969 lo Stato, in cambio della donazione di alcune opere, accettò di togliere per dodici anni il vincolo su questa strepitosa raccolta, messa insieme dall’antiquario più importante del primo Novecento italiano: perdemmo così capolavori rarissimi, come la Natura morta di Francisco de Zurbarán, prontamente acquistata dal Norton Simon Museum di Pasadena, in California. Fu “un colossale errore – scrisse Federico Zeri – : lo Stato non avrebbe dovuto prendere in considerazione la proposta”. Sarebbe stato meglio, cioè, rinunciare ad avere alcune opere anche importanti nelle collezioni pubbliche pur di mantenere intera e in Italia una grande collezione privata: una convinzione che è il frutto della nostra storia culturale. Mentre Napoleone spogliava l’Italia delle opere più insigni si comprese che “il paese stesso è il museo” e che quei pezzi straordinari sarebbero stati incomprensibili una volta “lontani dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso” (Antoine Quatremère de Quincy, 1796). Molto tempo dopo Pier Paolo Pasolini estese ancora questa visione contestuale: “Quel che va difeso è tutto il patrimonio nella sua interezza. Tutto, tutto ha un valore: vale un muretto, vale una loggia, vale un tabernacolo, vale un casale agricolo. Ma la gente non vuol saperne: hanno perduto il senso della bellezza e dei valori. Tutto è in balìa della speculazione” (1974). Esattamente per questo si è sempre pensato che fosse giusto e saggio far rimanere in Italia anche opere private che lo Stato non può sul momento comprare, ma che, in tempi lunghi, magari lunghissimi, finiranno col divenire pubbliche: le limitazioni, anche pesanti, che i vincoli impongono alla proprietà privata sono motivate dalla prospettiva, non importa quanto lontana, di “una fruizione ampia ed effettiva del valore culturale custodito dal bene” (così Massimo Severo Giannini).
Legale e illegale: dalle licenze di esportazione concesse “alla leggera” ai soliti tombaroli
Questa la teoria: la pratica è una continua via crucis. Gli scarsi mezzi e lo scarsissimo personale degli uffici esportazione delle Soprintendenze e gli enormi appoggi legali, le furbizie e la spregiudicatezza di collezionisti e mercanti rendono la quotidiana difesa del patrimonio una battaglia campale. Intanto, un flusso continuo di opere esce clandestinamente dal Paese: le opere rubate dai tombaroli o smurate dalle mille chiese monumentali chiuse (si pensi a Napoli), e quelle nemmeno mai conosciute che passano direttamente dal chiodo del palazzo avito al baule dell’automobile che varca la frontiera. E poi ci sono quelle che escono legalmente, ottenendo contro ogni ragionevolezza la licenza di esportazione e finendo al centro di polemiche e talvolta di inchieste. Nel 2011una tavola bolognese di fine Trecento, firmata da Simone dei Crocifissi, descritta dalle fonti fin dal Seicento e di riconoscibile provenienza ecclesiastica – vale a dire un’opera che andava assolutamente bloccata – finì legalmente
Raffaello, Caravaggio & C. La “Madonna Sistina” venduta ai tedeschi, poi le collezioni smembrate e gli uffici esportazione stranamente “distratti”...
all’asta a Vienna. Nel 2013 a New York, Christie’s batte “uno dei più importanti ritratti del Rinascimento ancora in mani private”: uno strepitoso dipinto di un Bronzino ancora immerso nello stile del suo visionario maestro, Pontormo. Fino almeno al 1956 il dipinto era attestato nella collezione fiorentina dei principi Corsini, e sicuramente era stato restaurato in Toscana nel 2010. Nel 1996 sei membri della famiglia erano stati processati per aver esportato clandestinamente opere assai preziose attraverso triangolazioni con banche svizzere e case d’asta londinesi. Mentre gli antiquari che avevano portato all’estero le tele (tra le quali un quadro attribuito, a torto, a Rubens finito al Getty di Los Angeles) vennero condannati, gli aristocratici furono assolti perché si ritenne inefficace il vincolo.
La furbata: nell’indicazione del valore del quadro manca uno zero per avvicinarsi a quello reale...
Nello stesso 2013 il Metropolitan Museum di New York acquistò un meraviglioso quadro di Ribera che era nella casa di Perugia in cui si trovava fin da metà Seicento: anche in quel caso – come per il Burri Crespi – a dare il via libera era stato l’ufficio esportazione di Venezia. È dell’anno scorso un altro caso inquietante, e passato sotto silenzio: ancora il Metropolitan ha acquistato dall’antiquario di Monaco Paul Smeets un capolavoro di Simon Vouet fino a poche settimane prima appeso in Palazzo Patrizi, in Piazza San Luigi dei Francesi a Roma. Sempre al 2017 risale un caso che per certi aspetti ricorda quello del Burri. La galleria milanese Robilant Voena vende alla Frick Collection di New York un superbo ritratto di Camillo Borghese, il fratello di Paolina e cognato di Napoleone dipinto da François Gérard, mirabile allievo di David. Ma tutto si impantana in tribunale perché il Ministero per i Beni culturali revoca la libera uscita quando si accorge che nella domanda di esportazione i mercanti non avevano esplicitato il soggetto del quadro e avevano indicato un valore a cui mancava uno zero per avvicinarsi a quello reale.
La partita a scacchi tra interesse privato e ben comune continua: se l’Italia è, nonostante tutto, così ricca di bellezza è perché, da secoli, quella partita è aperta.
PASOLINI Quel che va difeso è tutto il patrimonio nella sua interezza Tutto, tutto ha un valore: vale un muretto, vale una loggia, vale un casale agricolo