Il Fatto Quotidiano

“Al dolore di chi muore non può aggiungers­i il pensiero di rischiare”

Un’infermiera alla vigilia della sentenza sul caso Cappato: “Aiutare chi soffre non è una colpa”

- » FERRUCCIO SANSA

“Aiutare chi sta male non può essere una colpa. E chi parte non può sentire il peso di mettere nei guai le persone che gli sono accanto e lo accompagna­no. Non possiamo aggiungere un peso a chi già sta lasciando la vita”. Usa sempre la parola “partire” Sabina Cervoni. E questa infermiera romana di 58 anni di persone ne ha viste partire tante da quando ha deciso di prestare servizio presso l’associazio­ne svizzera Exit e di stare vicina a chi sceglie la morte assistita. Li ricorda uno per uno, racconta di loro con voce insieme ferma e commossa. Dalla Svizzera Sabina sta seguendo la battaglia di Marco Cappato.

Perché, secondo lei, la battaglia di Cappato è tanto importante?

Per dare serenità a chi parte. Ma anche per permettere ai loro cari di accompagna­rli senza che al dolore e alla sofferenza si aggiunga il pensiero di rischiare poi delle conseguenz­e giudiziari­e. Non si può punire chi agisce per altruismo.

Noi tutti ricordiamo dj Fabo. Ma sono tanti gli italiani che continuano a venire?

Gli italiani, ma anche i tedeschi, i francesi. Persone da tutta Europa.

I dati di associazio­ni come Exit e Dignitas parlano di circa 300 persone l’anno dall’Italia. Migliaia da tutta Europa. Com’è possibile?

Sono storie che avvengono nel silenzio. Lontane dai giornali. Non è vietato dire che si viene in Svizzera per farsi cu- rare... anche se in realtà si è deciso che sarà l’ultimo viaggio. Ma questa decisione deve essere riconosciu­ta, bisogna lasciare la libertà.

Lei crede che molte persone rinuncino ad accompagna­re i loro cari per timore di essere condannate?

No. Quando si condivide una scelta non c’è timore che regga. Sono disposti a rischiare, vince il coraggio.

Ma le polemiche ogni volta ritornano. Riemerge il timore di rendere facile il suicidio...

Mi rendo conto che la questione è delicata. Anche in Svizzera, dove la morte assistita è consentita, c’è una zona d’ombra nel codice penale in- torno alla figura di chi accompagna. Ma ci sono verifiche ferree: c’è la polizia e poi il procurator­e che in ogni caso si assicurano che nessuno abbia spinto la persona a partire. E che abbia deciso in piena autonomia. Poi c’è un’a ss istenza psicologic­a per garantire fino all’ultimo la possibilit­à di cambiare idea. Capita spesso. Dovete sapere che parliamo di persone spesso anziane (l’età media è 78 anni) e malate terminali. In Svizzera meno dell’1 per cento della popolazion­e sceglie la morte assistita.

Quanto aiuta in quel momento non essere soli e avere accanto qualcuno?

Le persone muoiono come sono vissute. L’ultimo momento racchiude in sé tutta l’esistenza. Ho assistito persone solitarie che hanno scelto di partire per conto proprio. Ricordo persone che hanno chiesto in quegli istanti di ascoltare la loro musica preferita, di avere accanto i fiori che coltivavan­o in giardino. Perfino di brindare con il loro liquore preferito. C’era un signore, non lo dimentiche­rò mai, che mi chiese di fare un brindisi con il mojito. Era serereno. Poi ha preso l’anestetico e in pochi minuti è morto. Ma altri...

Sì, chi ha avuto una vita ricca di relazioni e affetti chiede di averli accanto. Per chiudere la vita come l’ha vissuta. Per ritrovare prima di partire legami magari persi. C’era un uomo di 84 anni che intorno al suo letto è riuscito a ricomporre finalmente tutta la sua vita: c’erano la prima moglie con i figli, poi la compagna con l’ultimo figlio. Perfino i nipoti. Alla fine li ha visti tutti insieme, in un giro d’occhi. Si sono parlati, abbracciat­i. Capiti. Lei ha accompagna­to decine di persone. Parla di dolore, ma anche di serenità. Che cosa accom pagna queste persone, anche la fede? C’è chi crede e chi no. Certo, ho visto protestant­i, ebrei e molti cattolici. Proprio l’ultima donna che ho assistito aveva una profonda fede cattolica. Gliel’ho chiesto, perché prima noi parliamo tanto, e lei mi ha detto: ‘Non vedo nessuna contraddiz­ione tra la mia fede e la libertà di andarmene’.

Chi parte non può sentire il peso di mettere nei guai le persone care che gli sono accanto in questo viaggio

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Suicidio assistito Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, è morto il 27 febbraio 2017

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