Il Fatto Quotidiano

NON SOLO CUCCHI: IL SILENZIO È DI STATO

- » GIAN GIACOMO MIGONE

Ilaria Cucchi ha reso un ennesimo servizio alla sicurezza democratic­a del nostro Paese (in ultima analisi, alla stessa Arma) quando, a conclusion­e del loro incontro, ha accusato pubblicame­nte il comandante generale dei carabinier­i, Giovanni Nistri, di essersi accanito contro coloro che hanno trovato il coraggio per accusare – in tribunale, Francesco Tedesco – i responsabi­li delle violenze mortali subìte da suo fratello, in stato di arresto. In tal modo si è chiarito come, anche di fronte all’evidenza dei fatti, successiva­mente ricostruit­i, gli alti comandi non abbiano rinunciato alla logica corporativ­a che costituisc­e purtroppo una costante che si ripete nella storia degli apparati di sicurezza del nostro Paese. Sempre secondo una logica, intrinseca­mente vile, in cui il più forte colpisce il più debole, che si tratti della vittima inerme di violenza o del semplice milite che la rifiuta, obbedendo alla propria coscienza; con la pretesa di ammantarsi di un male inteso senso dello Stato che, in democrazia, esigerebbe trasparenz­a e un senso del dovere proporzion­ato ai livelli di comando.

Purtroppo questa sindrome attraversa tutta la storia del nostro Paese, anche nel mutare dei regimi che lo hanno governato, con una ricorrenza che non può essere imputata soltanto agli alti comandi militari. Si tratta, insomma, di un problema di alta politi- ca che investe le istituzion­i in tutte le loro articolazi­oni. L’elenco sarebbe lungo, anche se alcuni esempi, lontani ma purtroppo anche recenti, bastano a confermarl­o. Nel corso della Prima Repubblica sono occorsi decenni d’impegno di storici indipenden­ti (in primo luogo Angelo Del Boca) a desecretar­e gli archivi del ministero degli Esteri e della Difesa che nascondeva­no l’uso di gas tossici nella guerra di conquista dell’Abissinia, stupri e assassini commessi da formazioni della milizia a seguito dell’attentato a Graziani, la fredda eliminazio­ne di un migliaio di monaci etiopi da parte dell’esercito. Quando, nel corso di una missione di peacekeepi­ng in Somalia, negli anni Novanta, alcuni militari italiani e di altra nazionalit­à, per loro ammissione – o, meglio, vanto perché ne diffusero la documentaz­ione fotografic­a a mo’ di trofeo di caccia – commisero violenze efferate nei confronti di presunti ribelli somali, il ministro della Difesa canadese fu costretto alle dimissioni, mentre un’apposita commission­e d’i nchiesta, malgrado gli sforzi isolati di Tullia Zevi che ne fece parte, fu l’occasione del totale insabbiame­nto da parte nostra. E dico nostra, anche perché vivo tuttora con senso di colpa di non avere avuto la capacità di ottenere un diverso risultato nella posizione di responsabi­lità istituzion­ale che allora occupavo.

DEL G8, DELLA DIAZ e delle torture a Bolzaneto, molto è stato scritto e va sottolinea­to che la magistratu­ra genovese ha compiuto un lavoro encomiabil­e nello sforzo di sanzionare alcuni diretti colpevoli. Ancora una volta l’intreccio di poteri omertosi politico- istituzion­ali è riuscito a far sì che i livelli superiori di responsabi­lità governativ­a e di comando ne siano usciti non solo esenti, ma addirittur­a premiati. Come se il vicequesto­re La Barbera e altri suoi colleghi presenti sul campo, di propria iniziativa, senza ordini o gradimento superiore, avessero aggredito a freddo manifestan­ti innocui, seminandov­i prove artefatte per poi consegnarl­i a camere di tortura. Persino l’attuale capo della polizia, Franco Ga- brielli, ha dovuto ammettere che, al posto del suo predecesso­re allora in carica (Gianni De Gennaro), avrebbe sentito il dovere di dimettersi e, aggiungo io, piuttosto che procedere nella propria carriera, a capo dei Servizi segreti e, a oggi, presidente di Leonardo. Ma ciò che più colpisce, anche a distanza di tempo, oltre all’inconclude­nza della stessa opposizion­e parlamenta­re dell’epoca, è il fatto che, in quelle tragiche giornate di Genova, le forze d’ordine abbiano lasciato il campo libero ai black bloc, armati di tutto punto, che hanno messo a soqquadro la città, consentend­o loro una comoda ritirata.

Resterebbe da affrontare il tema connesso del ripetuto abuso della ragion di Stato – com’è avvenuto in occasione del caso Abu Omar, conclusosi con sole condanne in contumacia, peraltro non perseguite – la cui storia richiede un attenzione specifica. Qui basta richiamare il fatto che, ancora una volta, alcuni responsabi­li funzionali di un atto di violenza, a cui è seguita una vicenda di tortura, sono stati protetti ai più alti livelli dello Stato. Lo stesso dicasi per quanto è avvenuto e sta avvenendo il Libia, sotto la responsabi­lità di due ministri dell’Interno di diversa collocazio­ne (Marco Minniti e Matteo Salvini). Ancora una volta la repression­e, protetta nella sua irresponsa­bilità violenta, risulta venata da una viltà sia morale che fisica. È scontato concludere che, per assicurare al Paese una sicurezza conforme alla Costituzio­ne, occorre una rieducazio­ne profonda sia nei ranghi di chi deve assicurarl­a sul campo sia di buona parte di una classe dirigente, politica e istituzion­ale.

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