Il conformismo degli intellettuali durante la Grande Guerra
A parte rare eccezioni, come Zweig, poeti e filosofi gareggiarono nell’incitamento all’odio
Il 15 agosto del 1904 Luigi Pirandello scrive una lettera alla casa editrice Laterza per proporre la pubblicazione di una sua raccolta di novelle. È una lettera molto breve, dal rapido tratto commerciale, in cui la principale preoccupazione dell’autore non è tanto quella di fornire informazioni sul carattere letterario della raccolta, di cui non viene citato neanche il titolo – forse si tratta di una prima versione del futuro Erma bifronte, apparso nel 1906 per Treves – quanto il suo risvolto editoriale: numero e tipologia dei testi, sviluppo del volume in pagine, possibilità di “ottenere gratis una bella copertina illustrata”. La lettera, che per oltre cento anni è stata conservata nell’archivio epistolare della casa editrice barese, e che viene qui presentata per la prima volta insieme alla riposta di rifiuto di Giovanni Laterza, testimonia un particolare momento nella vita di Pirandello: i mesi che precedono il suo primo grande successo letterario, ottenuto grazie alla pubblicazione de Il fu Mattia Pascal. Ma come mai Pirandello si era rivolto a una casa editrice come Laterza? Il rifiuto laconico e insindacabile del giovane editore barese, documentato dalla lettera di risposta del 22 agosto dello stesso Fra
poco cadrà il centenario della fine dell’immane massacro militare della Prima guerra mondiale: il 4 novembre capitolò l’Impero austro-ungarico, l’11 quello germanico. L’incredibile rimonta di Vittorio Veneto si dovette a un genio militare napoletano, Armando Diaz, visto che fino a quel momento lo stratega di fiducia dei Savoia, il piemontese Cadorna, aveva concepito la guerra solo come una macelleria fine a se stessa; in questo la classe militare inglese e francese non fu da meno. E sarebbe bene, per non dimenticare – sempre che a qualcuno l’insegna- mento della storia oggi interessi – che si rivedessero tre meravigliosi films che denunciano in modo tragico e spietato la macelleria: Per il re e per la patria di Losey, Orizzonti di gloria di Kubrick e Uomini controdi Rosi: il suo più bello, insieme con Le mani sulla città.
DAL MOMENTO ch e nel mio scorso articolo ho raccontato per brevi tratti dell’estate da me trascorsa con Stefan Zweig, debbo tornare al Mondo di ieri. I capitoli centrali di queste Memorie – Memorie dello spirito eu- ropeo stesso – sono dedicati ai prodromi della guerra e ai suoi anni. La definizione di “guerra civile europea”, ripresa con tanta fortuna da Ernst Nolte, si deve a Zweig. I grandiosi capitoli vanno ricordati anche in relazione al tema del comportamento degli “intellettuali”: la vergogna suscitò nel corso del conflitto, pagine alte e dolenti, più che indignate, del nostro Maestro, e a sua volta suscitò un celebre libro del 1927, Il tradimento dei chierici, nel quale Julien Benda stigmatizza il ruolo degli uomini di cultura, traditori della loro missione: comprendere e far comprendere, giusta l’etimo intelligere.
Zweig ben conosce i poderosi interessi economici che, nella loro crescente e vertiginosa accumulazione, sono la “st ru tt ur a” de ll o scoppio della guerra. Ma egli ha chiara la coscienza che a un certo punto la faccenda sfuggì di mano alle stesse diplomazie che la trattarono. L’Italia, non interventista, avrebbe dovuto restare neutrale, e le trattative condotte da Giolitti – chiamato “traditore” dai forsennati – ci avrebbero garantito di più di quel che miseramente ottenemmo col Trattato del Trianon. Gl’interessi di pochi, in primis i Savoia, ci spinsero nel conflitto. E qui non si può che ricordare la sentenza di Sofocle, il dio fa prima uscire di senno coloro che vuol distruggere. Vale anche per tutto il corso del conflitto.
I più alti spiriti europei che per
tutta la guerra si adoperarono per la pace immediata sono, oltre il pontefice Benedetto XV, Zweig e Romain Rolland, un grande storico della musica e romanziere francese. Vennero equamente definiti “traditori” dal proprio paese, e andarono vicino all’impiccagione; allo stesso modo che il Papa era il nemico principale di tutti gli schieramenti e il messaggio sull’inutile strage venne censurato in ogni nazione belligerante. Zweig, da un lato, Rolland, dall’altro, si trovarono soli quando tentarono di far firmare un manifesto incitante alla pace. Fra i pochi fratelli spirituali da loro trovati, Benedetto Croce. Non uno aderì; e i poeti, i romanzieri, i filosofi, gareggiarono nell’infamia, nell’incitamento all’odio, nell’inneggiare alla guerra come “sola i- giene del mondo”.
La pagina più nera della vita di Gabriele D’Annunzio e di Thomas Mann è proprio qui. Ma se il sommo poeta italiano rischiò la vita e si riscattò coll’i mp re sa pacifica del lancio dei manifestini su Vienna, poi con quella di Fiume, il grande romanziere di Lubecca lo supera in blateramento, e giunge a negare la stessa cultura latina: la base ideologica dell’incitamento all’odio. Mutato il vento, Mann ritrattò; ma continuò a detestare Zweig. La vicenda mostra una terribile verità: l’uomo di cultura, o intellettuale, è labile e dipendente dal potere, oggi persino più che sotto il despotismo di Augusto. È quasi solo servo: per sua natura. Dobbiamo venerare i pochi che non lo sono.
L’uomo di cultura è labile e dipendente dal potere, oggi persino più che sotto il dispotismo di Augusto