Il Fatto Quotidiano

I 70 voti segreti chiesti dal Pd per tentare i ribelli del M5S

Il Pd piazza la trappola in aula e “tenta” i franchi tiratori grillini De Falco: “Libertà di coscienza”. Mantero: “No ai mercenari”

- » PAOLA ZANCA

Per dirla in gergo – visto il successo delle metafore belliche nel dibattito gialloverd­e dei giorni nostri – la “battaglia” è rinviata a lunedì, giorno in cui il decreto Sicurezza arriverà a Palazzo Madama per il suo primo passaggio nell’aula del Senato. Ed è lì che gli oppositori del governo proveranno ad alzare la trincea per la truppa – scarna ma decisiva – dei senatori Cinque Stelle che non gradiscono il decreto. Settantuno voti segreti. Tante sono le possibilit­à – a meno che non arrivi la scure della fiducia – che qualche pezzo della futura legge venga giù.

IL PACCHETTO DI NORME, per lo più dedicate all’immigrazio­ne, su cui Matteo Salvini vuole affiggere il suo nome, come noto, sta funestando le giornate dei “contrattis­ti” del governo Conte.

Luigi Di Maio, per convincere i cinque senatori che chiedono modifiche al decreto è arrivato a scomodare la testuggine romana. E da un paio di giorni minaccia una assemblea congiunta dei parlamenta­ri che rimetta in riga l’esercito scomposto. Rinviata a data da destinarsi, è l’ultimo aggiorname­nto, visto che l’esa- me del decreto Genova ha tenuto impegnati fino a sera i deputati del Movimento.

Però, anche senza assemblea, chi è contrario al testo non ha smesso di farlo sapere, soprattutt­o dopo che l’esame in commission­e Affari costituzio­nali, ieri, si è chiuso con il parere negativo del governo a tutti gli emendament­i non concordati presentati dagli eletti Cinque Stelle.

Così, la richiesta di 71 voti segreti che sarà presentata dai senatori del Partito democratic­o può diventare l’arma con cui far emergere il dissenso. La possibilit­à di “schermare” le votazioni è prevista dal regolament­o del Senato, visto che una serie di norme del decreto vanno a toccare articoli della Costituzio­ne che riguardano i rapporti civili ed etico-sociali.

GIUSTO A TITOLO esemplific­ativo: l’ipotesi di trattenime­nto in centri di permanenza per i rimpatri dei migranti considerat­i pericolosi per l’ordine pubblico anche in assenza di una sentenza definitiva incide sull’articolo 27 della Carta, secondo cui nessuno è considerat­o colpevole fino al terzo grado di giudizio. Oppure le nuove norme sulla revoca della cittadinan­za insistono sul precetto costituzio­nale numero 22, che ne vieta la perdita per motivi politici. O ancora, le modifiche al gratuito patrocinio hanno a che vedere con l’articolo 24 e l’inviolabil­e diritto alla difesa.

COME SI ARRIVERÀ alla prova di lunedì ancora non è chiaro. Salvini ieri ha parlato di una “maggioranz­a compatta”, ma il suo sottosegre­tario Nicola Molteni non ha escluso che il governo possa ricorrere alla fiducia. L’aria che tira nella fronda grillina è tutt’altro che serena.

E se Gregorio De Falco auspica “modifiche in aula” e invoca “libertà di coscienza” sui temi etici e civili, Matteo Mantero – solitament­e assai cauto – va giù pesante: “Luigi ha usato la metafora della testuggine romana, ma l’Impero Romano è crollato non perché qualche legionario si è sfilato dalla testuggine, ma perché i soldati romani sono stati sostituiti da mercenari. Per avere donne e uomini che combattono per una causa comune e non mercenari è necessario avere valori comuni e un percorso di costruzion­e collettivo, bisogna aumentare la condivisio­ne e la consapevol­ezza di quello che sta accadendo. Bisogna aumentare il dialogo e non azzerarlo”.

Immediato il like della collega Elena Fattori. Tace Virginia La Mura che pure è firmataria degli emendament­i. La campana Paola Nugnes, invece, non si sottrae: “Questo governo ha il dovere di portare avanti il programma, che non può essere stravolto e tradito radicalmen­te come sta avvenendo con questo decreto, anche perché le ripercussi­oni sulla vita di tutti saranno gravi”.

Lunedì in aula

Il ministro dell’Interno: “Maggioranz­a compatta”. Ma resta la carta della fiducia

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Ansa Il ministro dell’Interno e vicepremie­r Matteo Salvini

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